E’ in atto una guerra di nervi parallela a quella combattuta con le armi che ieri ha visto a Gaza il più alto numero di vittime palestinesi di un attacco aereo israeliano dal novembre 2012 e in Israele riecheggiare le sirene di allarme nelle città meridionali per il lancio di razzi palestinesi che ad Ashdod hanno fatto un ferito. A Gaza che la scorsa notte attendeva una nuova offensiva aerea israeliana dopo i pesanti raid della sera, si sta giocando anche una partita che va oltre la spirale di attacchi e rappresaglie vista in questi ultimi giorni. Ieri mentre si svolgevano i funerali dei nove militanti armati di Hamas e del Jihad Islami, uccisi qualche ora prima a Rafah dal violento bombardamento aereo israeliano di domenica notte (che ha causato il ferimento anche di civili tra i quali due bambini e due ragazzine), e i gruppi armati palestinesi indirizzavano per rappresaglia decine di colpi di mortaio e razzi verso il territorio israeliano, la leadership del movimento islamico formulava una richiesta ad alto rischio. Se Israele vuole ripristinare la tregua (hudna) raggiunta dalle due parti il 21 novembre 2012, deve liberare gli 800 palestinesi (secondo i calcoli di Hamas), arrestati a partire dal 12 giugno, in seguito al rapimento dei tre ragazzi ebrei in Cisgiordania.

 

L’approccio “morbido” (si fa per dire) adottato sino a due giorni fa dal premier israeliano Netanyahu nei confronti di Gaza – che ha fatto infuriare il ministro degli esteri Lieberman – fa intravedere al movimento islamista un imprevisto spazio di manovra politica. Tuttavia Hamas con la sua richiesta potrebbe fare proprio il gioco dell’ultradestra nel governo Netanyahu e accorciare i tempi di un massiccio attacco israeliano alla Striscia. Ieri la riunione d’emergenza del gabinetto di sicurezza si è chiusa con la decisione di aumentare “gradualmente” i raid aerei su Gaza, finchè prosegue il lancio di razzi, e il richiamo di 1.500 riservisti anche se non una operazione di terra. Non c’è da stare allegri per i civili. Lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele la guerra può solo farsi più intesa nei prossimi giorni. Hamas in ogni caso è costretto a giocare ogni carta a sua disposizione, ci spiega Aziz Kahlout, un giornalista di Gaza, «per rompere l’isolamento politico e diplomatico in cui si trova, a causa anche del fallimento del governo di consenso nazionale palestinese nato ai primi di giugno. (Il presidente) Abu Mazen – aggiunge Khalout – aveva fatto delle promesse, come l’apertura del valico di Rafah, ma non le ha mantenute e nessuno sa se, quando e come saranno pagati i 40 mila impiegati dei ministeri del disciolto governo islamico (al potere a Gaza dal 2007 al mese scorso, ndr). Senza dimenticare che la sicurezza palestinese ha contribuito nelle scorse settimane alla campagna israeliana di arresti contro Hamas (in Cisgiordania)».

 

I dirigenti del movimento islamista vogliono la mediazione dell’Egitto per fermare la nuova guerra, aggiunge Kahlout, convinti che questo porterebbe anche alla ripresa dei rapporti tra Hamas e il Cairo, interrotti dopo il colpo di stato dei militari contro il presidente Mohammed Morsi. L’Egitto post-golpe non ha alcuna intenzione di dialogare con Hamas, che considera una “organizzazione terroristica”, ma non può rimanere indifferente alle sofferenze della popolazione di Gaza. E su questo puntano i leader del movimento islamico. Ieri il ministero degli esteri egiziano ha condannato i raid aerei di Israele e ha chiesto un stop degli “attacchi vendicativi” e della “punizione collettiva”.

 

La tensione avvolge anche la Cisgiordania e le aree a maggioranza palestinese all’interno di Israele. Manifestazioni, proteste e scontri si ripetono da giorni. Esercito e la polizia di Israele usano il pugno di ferro. Hebron, Yatta, Tulkarem, Ram e tante altre località si sono trasformate in campi di battaglia con parecchi feriti. Lo sdegno per la brutale uccisione di Mohammed Abu Khdeir non si è placato dopo l’arresto di sei israeliani di Beit Shemesh, Gerusalemme e della colonia di Adam accusati di aver rapito e bruciato vivo il ragazzo palestinese, per vendicare l’omicidio in Cisgiordania dei tre ragazzi ebrei. Tre degli accusati hanno ammesso il delitto e ricostruito la dinamica dell’assassinio. Si è anche saputo che il giorno prima avevano cercato di rapire un bambino palestinese di 9 anni, salvato dalla madre.

 

L’assassinio di Mohammed Abu Khdeir, il pestaggio di suo cugino 15enne Tareq da parte della polizia ripreso in un video che ha fatto il giro del mondo e, naturalmente, la guerra non ancora dichiarata da Netanyahu a Gaza, stanno spaccando la destra israeliana. Il leader ultranazionalista e ministro degli esteri Lieberman ieri ha annunciato la rottura della sua alleanza tra il suo partito Yisrael Beitenu con il Likud di Netanyahu, in polemica con la linea prudente, almeno se paragonata a quella del passato, del primo ministro verso Gaza. E’ ben noto il mal di pancia del leader di Casa Ebraica, Naftali Bennet, ministro dell’economia e alfiere della colonizzazione dei Territori occupati. E ampi settori dell’opinione pubblica israeliana mal digeriscono le dichiarazioni di alcuni leader politici, sincere o dettate da ragioni di opportunità politica. Netanyahu ieri ha espresso a Hussein Abu Khdeir, padre del ragazzo palestinese ucciso, «lo shock di Israele per l’omicidio». Nello Stato di Israele «non c’e’ differenza fra sangue e sangue», hanno scritto in un intervento sulla prima pagina di Yediot Ahronot il presidente uscente Shimon Peres e il suo successore Reuven Rivlin. A coloro che, ai vertici dello Stato, mettono sullo stesso piano l’assassinio per vendetta del ragazzino palestinese Mohammed e gli attentati in cui rimangono uccisi cittadini ebrei, ha risposto infuriato Meir Indor, dell’Associazione Almagor delle Vittime del Terrorismo in una lettera inviata a parlamentari, ministri e alla procura dello Stato per affermare che il paragone è improponibile. Per Indor il terrorismo degli israeliani è meno grave di quello degli arabi.