Ottavio Leoni, “Ritratto di Giovanni Baglione”, Firenze, Biblioteca Marucelliana

 

Era l’inverno del 2015 e nel suo zaino c’erano una Leica, una buona dose di fiuto d’archivio e un pizzico di ambizione: in una grigia giornata di dicembre, con la pioggia mista a neve fuori dai doppi muri dello Stonyhurst College, Riccardo Gandolfi ha compiuto una delle scoperte più clamorose degli ultimi decenni, ritrovando le Vite degli artisti scritte a Roma da Gaspare Celio tra il 1614 e il 1638 (Olschki, pp. 392, 55 tavole, euro 48,00, con prefazione di Alessandro Zuccari). Una vaga traccia inventariale, fornita da un vetusto catalogo di biblioteca, aveva condotto lo studioso nel Lancashire, in quell’antico baluardo gesuita in terra anglicana, alla ricerca di un commento manoscritto alle Vite di Giorgio Vasari, con la speranza che potesse trattarsi di quell’importante opera – già pronta per la stampa e sino a oggi considerata perduta – menzionata da Celio stesso nel suo ultimo testamento e dall’erudito Giano Nicio Eritreo nel primo tomo della sua Pinachoteca (1643). Se lo è ritrovato sotto gli occhi, mortificato da una modesta legatura verdognola di fine Ottocento, poggiato su un vecchio tavolo di rovere accanto a marmi dell’antico Egitto e ad altri cimeli del colonialismo britannico, durante i lavori di restauro di quel College neogotico.
Se non fosse per questa monumentale impresa letteraria, Gaspare Celio (1571-1640) sarebbe rimasto un comprimario da «addetti ai lavori» nel variegato panorama romano della tarda Maniera. Eppure la sua vicenda umana e professionale riacquista oggi un’inaspettata centralità. Secondo Giovanni Baglione, suo più famoso detrattore, Celio doveva essere un uomo «fantastico» e permaloso che amava fare «del sapiente e del filosofo». Una sicumera che trapela anche dal potente ritratto offertogli nel 1614 da Ottavio Leoni, all’indomani della realizzazione dei suoi capolavori nella chiesa del Gesù e per la famiglia Mattei, mentre Gaspare iniziava la stesura delle Vite: tronfio, vigile e concentrato, l’artista sfoggia le insegne del cavalierato e continua a guardarci con l’aria sdegnosa dell’uomo «un poco altiero» che «non prezzava alcuno della sua professione».
L’edizione di Gandolfi, filologicamente impeccabile, riconsegna alla storia una fonte che riassesta la narrazione «toscanocentrica» di Giorgio Vasari, interrottasi nel 1568 con la pubblicazione della Giuntina. Il pittore-scrittore romano, infatti, arricchì il testo del biografo aretino con una messe di informazioni altrimenti sconosciute sui grandi maestri del Rinascimento, integrandolo con una trentina di nuove «vite», tra le quali quelle di Caravaggio, Annibale Carracci, Scipione Pulzone e Federico Barocci: una vera miniera d’oro che apre nuove prospettive di ricerca su alcuni dei maggiori protagonisti dell’arte italiana dalla fine del XV secolo al principio del XVII.
Pur non possedendo la verve narrativa di Vasari, l’acutezza di visione di Giulio Mancini, l’approccio sistematico di Baglione o la profondità teorica di Giovan Pietro Bellori, anche il racconto di Celio muove da un intento ben preciso: celebrare la capitale papale quale eterna capitale delle arti. Le glorie di Roma, dunque, sono violentemente contrapposte alla faziosa apoteosi di Firenze operata da Vasari, che se «non havesse havuto incontro la Scrittura (n.d.r. le Sacre Scritture), haveria detto che il primo huomo fusse creato in Toscana».
L’esaltazione del primato dell’Urbe nel processo di rinascita delle arti ha inizio con la rivalutazione di Pietro Cavallini, il campione del medioevo capitolino che ancor prima di Giotto avrebbe dipinto «molto meglio della maniera greca», cioè bizantina. Grazie a Celio – e non è cosa da poco – possiamo fissare all’anno 1291 l’esecuzione dei mosaici di Santa Maria in Trastevere, sulla base di un’iscrizione oggi non più esistente che il pittore poté esaminare durante la messa in opera del nuovo organo della basilica, commissionato dal cardinale Altemps.
Le novità più cospicue offerte dal manoscritto, naturalmente, riguardano gli artisti del Cinquecento. Tra le più eclatanti si segnala la riprova del mancato viaggio a Roma di Correggio – vexata quaestio negli studi sul maestro parmense – «essendo tali le cose sue senza aver egli visto le cose antiche o le buone moderne», bensì attraverso la mediazione dei disegni di suo figlio Pomponio, che «fu mandato a Roma a studiare dalle cose antiche, il quale mandò molte teste formate sopra le statue antiche al padre, che poi se ne servì nelle (sue) opere».
Nella formazione degli artisti moderni dovettero giocare un ruolo rilevante le perdute pitture delle Terme Diocleziane, prese a modello da Michelangelo per i suoi celebri ignudi, poiché «erano grandi oltre misura»: «era fama che Michele, dopo averle disegnate, le haveva anco con una picca» quasi del tutto cancellate, per non permettere ad altri di studiarle. Ciò che più colpisce nel racconto di Celio è la miriade di aneddoti sugli artisti, con una particolare predilezione per le loro inimicizie e per i pubblici scandali o, per dirla con Oscar Wilde, per «quei pettegolezzi resi noiosi dalla moralità».
Sono tali, ad esempio, le illazioni sodomitiche nella biografia dell’emiliano Girolamo Mirola, imprigionato a Parma mentre era al servizio di «Ottavio Farnese, dilettandosi con il duca di facezie assai libere, fra le quali ne fu una, che andando la notte a spasso, et portando armi proibite, era venuto un bargello che non conosceva Mirolo, perché il giorno dipingeva e la notte camminava, onde fu preso e posto in prigione, e Mirolo si lassò menare senza dire cosa alcuna. Si cercò la mattina, non trovandolo il duca sopra il lavoro, e trovatolo, e libberatolo, e contando al duca come fu preso, il duca gli disse, perché non dicesti che stavi meco? Al che Mirolo rispose, perché mi pareva vergogna di dire che un huomo stesse con un altro huomo. Del che il duca se ne rise, e gli diede la mancia». Per non parlare del ricordo della decrepita Margherita Luti, la «donna di Sanzio» universalmente nota come la Fornarina, che ancora nel 1590 non smetteva di piangere il grande amore della sua vita…
La proverbiale rivalità tra Michelangelo e Raffaello, inoltre, rivive nella descrizione di un loro memorabile botta e risposta avvenuto per le strade di Roma: visto passeggiare il Sanzio assieme ai suoi numerosi allievi, il Buonarroti avrebbe esclamato: «ecco il bargello, perché se li menava tutti seco». La replica del maestro di Urbino non si fece attendere: «ecco il maestro di giustizia, cagione che sempre andava solo». Altrettanto vivida è la descrizione del furioso alterco tra Michelangelo e Jacopo Torni, detto l’Indaco, a seguito delle critiche che quest’ultimo osò muovere alle sue figure, giudicate «troppo grosse». E, ancora, le macchinazioni del Buonarroti contro Daniele da Volterra, che su sua indicazione avrebbe rinunciato a dipingere nella Sala Regia vaticana perché Michelangelo non voleva che «mettesse in forse la (sua) preminenza». Come pure le rocambolesche avventure del giovane Scipione Pulzone, che «partì da Gaeta, lassando la casa sua molto povera, e per mare, mentre andava a Roma, li marinai trattarono di venderlo alli turchi, ma uscendo essi a fare acqua, e Scipione ancora, se ne fuggì». E, ancora, gli eccessi romani di Caravaggio, ripescato dal Cardinal del Monte «a dormire nel poggiolo attaccato a Pasquino, che non haveva panni attorno».
Non si possono tralasciare, infine, le passioni travolgenti di Sofonisba Anguissola dopo la morte del marito Ferrante Moncada, sopraggiunta nel 1578 in circostanze ancora misteriose: «tornandosene per passare a Cremona sopra la galera, se inamorò del capitano, et arrivata in Genoa se lo prese per marito». Come da copione, il marinaio tradì quasi subito le sue promesse d’amore e, dopo aver «dato fondo alle gioie et alli denari (di Sofonisba), che erano in quantità, la lassò».