Ci sono voci e tocchi strumentali che fanno la differenza, in quel mondo variegato, caotico e mai comprensibile con un solo colpo d’occhio che è il grande bacino delle note afroamericane in varie declinazioni, e nello specifico la musica popular, da poco più d’un secolo. Pensate a Billie Holiday, a Sinatra, a Dylan, a Armstrong. A Cohen, a Mercury. Senza «quella» voce, non c’è differenza. Puoi citarli, quei brani dove spiccava il quid di differenza, ma l’originale resta inimitabile. Una traccia che rimane, perché, da poco meno di un secolo e mezzo, abbiamo trovato il modo di conservarle, le voci, e la musica non è più, per dirla con Leonardo, che molto la amava, «sorella minora alla pittura, perché destinata a svanire». Gary Brooker, «la» voce dei Procol Harum è stato uno di questi protagonisti. Senza di lui non esisteranno più i Procol Harum, senza di lui A Whiter Shade of Pale potrà essere una citazione o un brivido parziale da un disco, mai un brivido completo. Senza i Procol Harum, poi, che si apprestavano ancora una volta ad andare in tour, svanisce una bella fetta del sogno di una generazione che la musica popular l’aveva cambiata e riassestata su nuove basi, nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, assieme ad altri degni inventori di nuovi paradigmi.

PRESENZA MAGNETICA
Gary Brooker se n’è andato tranquillo e signorile a 76 anni, un tumore se l’è portato via un paio di weekend fa. Scompare una di quelle presenze magnetiche e necessarie che sono tali non per ridondanza d’ego, per accanimento nel voler essere sempre sotto lo spot che ti illumina, ma perché hanno il carisma del dono naturale, e una gentilezza esteriore che è specchio di quella interiore. Così il resto del gruppo, nell’annunciare la notizia: «Voce e piano di Gary erano la costante più rappresentativa della carriera cinquantennale dei Procol Harum. Senza che mai avesse atteggiamenti bizzarri o esagerati sul palco, era sempre il musicista più notevole e che valesse la pena guardare durante lo show». Un rocker più vicino ai suoi ottant’anni che ai settanta che amava la pesca, la pittura e fare del bene alla sua comunità. L’avevano anche premiato per quest’ultimo poco noto aspetto. Quasi il rovescio del maledettismo di maniera che infesta le cronache sul «vero rock». Gary Brooker è stato un protagonista gentile e necessario di una stagione cruciale per il rock e per la musica tutta, quello snodo proteico che ha portato le note del secondo dopoguerra «da ballare» ispirate al blues e al rhythm and blues degli afroamericani, conosciute per i dischi e per qualche concerto avventuroso, ad essere art rock e progressive rock. Tutta un’altra cosa. Un mondo a parte inclusivo e non esclusivo in cui confluivano blues e jazz, preparazione strumentale classica e inviti ad «allargare l’area della coscienza», inediti paesaggi sonori e rumore, sudore e riflessione, psichedelia dirompente e rigore. Tutto e il proprio contrario.
Così cominciò, anche se sotto i buoni auspici del talento prematuro il pianista e vocalist eccelso Gary Brooker, cofondatore dei Procol Harum. Prima, a quattordici anni, c’era stata l’acerba avventura con i Paramounts, a scuola: lì aveva incontrato Robin Trower, un ragazzino che maneggiava la chitarra come un demone invasato, futuro incendiario chitarrista con i Procol e poi in una carriera solistica che avrebbe meritato più attenzione. Arrivarono anche a incidere, era il 1964: Poison Ivy, si chiamava il pezzo, i Rolling Stones si sperticarono in lodi, definendoli «il miglior gruppo di r’n’b in circolazione». A parte loro, naturalmente. Nel ’66 l’avventura finisce, Brooker cerca altro, e altrove: conosce il paroliere Keith Reid, è intesa immediata, si consolida un corpus di brani «diversi», che da una parte conservano la carica bluesy degli esordi, dall’altra spingono le antenne altrove, a captare il nuovo. Reid, a una festa a casa del loro futuro produttore, Guy Stevens, lo coglie un po’ sbronzo a farfugliare alla moglie «sei diventata di una sfumatura più bianca del pallido», si appunta quelle parole, e su quella frase scrive un testo teso e surreale, un’atmosfera dove il tempo pare come sospeso, come nei film della nouvelle vague che molto amava. È A Whiter Shade of Pale. Brooker ci costruisce attorno una musica col pianoforte ricavata da una scala armonica discendente che attinge direttamente dall’Aria sulla quarta corda di Bach, Suite n. 2 in Re maggiore, e la sua voce è un maestoso volo radente. Un miracolo sonoro. Accentuato dall’organo Hammond di Matthew Fisher, settato in modo da suonare come un organo da chiesa, e che, in assolo, va a citare direttamente un’altra composizione di Bach, «Svegliatevi la voce ci chiama». Roba più o meno «inaudita», nel senso letterale del termine, per il rock: mai ascoltata prima, in questa veste antica e nuovissima assieme. Il segreto del prog rock a venire, insomma, o, almeno, in buona parte.

STAZIONI PIRATA
Si agglutina la band che, per breve conosciuta come Pinewoods diventa Procol Harum. Il brano arriva alle orecchie giuste il 17 aprile del ‘67: quelle di Radio Londra, una delle «stazioni pirata» dedite al nuovo rock che trasmettono dalla Manica, fuori dalle acque territoriali. I Procol Harum sono una realtà. E il palcoscenico attende la prova: dopo un esordio all’Ufo Club dove si esibiscono anche altre band «proto-progressive», i primi Pink Floyd e i Soft Machine, nel giugno del 1967 sono al più esclusivo Speakeasy di Londra: «aprono» per Jimi Hendrix, in sala ci sono, tra gli altri, Cat Stevens, Eric Burdon, gli Who Townshend e Daltrey, Paul McCartney che in seguito definirà A Whiter Shade of Pale «la più bella canzone di tutti i tempi». Quattro giorni dopo, A Whiter Shade of Pale è al top delle classifiche inglesi, un giorno Brooker entra in una boutique della Swingin’ London e ci trova i Beatles al completo che, accompagnati da un harmonium, stanno cantando proprio la sua canzone. Il mese successivo sbanca negli States. Mica male, per degli esordienti. A quel punto Brooker si ricorda del vecchio amico Robin Trower, nascono i «veri» Procol Harum: che nell’ottobre del ’67 sfornano la meravigliosa Homburg, altro brano classicheggiante con una linea melodica inedita così maestosa e così magistralmente proposta dall’ugola di Brooker che molti critici dichiareranno preferire a quella del primo singolo «bachiano». Intanto, però, A Whiter macina versioni in giro per il mondo: i Dik Dik da noi ne realizzano una più che onesta, il testo è ridicolo e azzera l’atmosfera tesa dell’originale, ma timbro vocale e progressione sono rispettati, e anche in Italia il brano entra nella memoria «pop». La canzone perfetta per matrimoni, addii e feste revival.
Procol Harum è diventata una vera macchina da suono, con una bizzarra dicotomia, tutt’altro che strana, per l’epoca: un piede nelle note classiche, uno nel rock nudo e crudo, merito dalle sfuriate elettriche di Trower: la mediazione nelle ballad, e nelle ballad Brooker è imbattibile. I dischi perfetti, in questo senso, arrivano con il potente A Salty Dog, giugno del ’69, e Home, ’70, blues nell’anima, pentagrammi classici come riferimento. Nel ’71 i Procol Harum di Brooker tagliano un altro traguardo, inevitabile per l’epoca e per un gruppo come loro: in concerto con la Edmonton Symphony Orchestra e i DaCamera Singers. L’alchimia con i canadesi funziona, e un altro brano tratto dalla registrazione del concerto, Conquistador, sarà tale di nome e di fatto, per i fan: la nuova canzone da ricordare. La metà degli anni Settanta porta cambi d’organico e dischi raffinati e sontuosi, con arrangiamenti complessi e la voce di Brooker rifinita e presente come non mai: sono ormai dei classici del prog rock, i Procol, e dischi impeccabili ed eleganti come Grand Hotel e Exotic Birds and Fruits sono lì a dimostrarlo.
Nel ’77 arriva un primo stop: il mondo è cambiato, la spallata del punk attizza nuove e completamente diverse energie. Dopo dieci dischi con i Procol Brooker diventa un solista, e che solista, anche se i fasti delle classifiche stellari sono lontani: collabora con Eric Clapton, George Harrison, Kate Bush, con Ian McDonald cofondatore dei King Crimson, per ironia della sorte scomparso in questi tempi amari pochi giorni prima di lui. I suoi dischi «solo» non sono tutti capolavori, ma la zampata del maestro con la voce soul c’è sempre, e alla fine un disco degno in tutto e per tutto dei gloriosi Procol Harum arriva, con Echoes of the Night, nel buio colorato degli anni Ottanta: il segreto è che, sotto sotto, il gruppo di accompagnatori sono, in gran parte dei brani,… i Procol Harum. Brooker li riforma nel 1991, e non è solo nostalgia: prima se ne escono con un disco tutt’altro che trascurabile, The Prodigal Stranger, nel ’91 arriva Novum, degno epilogo per una band che ha ancora insospettabili riserve di creatività e voglia di andare in tour. Nel 2010 condividono le date con i Jethro Tull, nel 2012 con gli Yes. Il canto del cigno arriva a un passo dalla pandemia, nel 2017: tutto esaurito per un concerto alla Royal Festival Hall con orchestra. Brooker cade, si fa male, si fa medicare e rientra bendato a una mano e sulla testa sul palco per finire il concerto. I vecchi rocker non mollano mai. Triste sarcasmo della sorte, che gli ultimi pezzi incisi dalla band per un ep da tre tracce, uscito nel maggio del 2021 abbiano un titolo che fa venire i brividi: Missing Persons ( Alive Forever): scomparsi, ma vivi per sempre

PROTO PROG, DAI MOODY BLUES AI NICE AI FAMILY
«La formula era semplice: chitarra, basso, batteria, un cantante, organo elettrico. Di musica fatta così traboccava l’Inghilterra del 1965 e la migliore, o almeno quella meglio confezionata, trovava la via del continente e degli Stati Uniti. Armati delle chitarre che i marines avevano lasciato al banco dei pegni, i ragazzi replicavano nelle sale da ballo il rhythm and blues americano». Così fissa il momento storico immediatamente precedente quello in cui incominciano i primi vagiti del progressive rock il giornalista di Washington David Wiegel in un bel libro, Progressive rock. Ascesa e caduta di un genere. Aggiungendo, anche, che discostarsi di un pelo dai modelli significava incorrere nel furore popolare, e della critica. Ad esempio i Paramounts, per il palco, s’erano studiati a memoria tutti i 45 minuti di Live at The Apollo di James Brown, e lo ricreavano in scena nota per nota. I Paramounts, si noti: i futuri Procol Harum!

UN’ALTRA MUSICA
Il ’65 è davvero il momento di snodo in cui il vaso di Pandora del rhythm and blues replicante inglese si spezza, e convulsamente nasce un’altra musica. A propria volta influenzando, di rimbalzo, la scena americana. Un’altra musica che mantiene sì l’aggancio con la vocalità afroamericana, ma incorpora voracemente ogni genere di stimolo che possa far compiere il salto di paradigma. Dunque riferimenti al folk e alle musiche popolari, il rhythm and blues accantonato per le forme più avanzate di jazz ascoltato sui dischi, i compositori classici dell’età barocca e romantica, le note che arrivano dalle avanguardie contemporanee, l’elettronica in fase seminale, il rumorismo, gli spunti raccolti dalle avanguardie letterarie e delle arti visive. La semplicità dilatabile all’infinito delle note «modali» che bypassano il gioco stantio della forma canzone di Broadway. Tutto e tutto assieme.
L’innesco al gran fuoco proto-prog, al solito, lo danno i Quattro di Liverpool. Che dopo aver fatto tanta gavetta da garage band rumorosa alla metà del decennio cominciano a sperimentare, inquieti e ipercreativi, raccogliendo spunti ovunque. I pochi secondi di rumore che aprono Revolver dei Beatles aprono la sacca dei venti: Eolo è libero di soffiare impetuoso, su quelle piste nasceranno pastiche e giochi di studio di registrazione, rumori e voci angelicate assieme. Il tempo di Sgt. Pepper, proto-prog a tutti gli effetti, comunque lo vogliate considerare. Sull’altra sponda dell’Oceano faranno qualcosa di simile i californiani Beach Boys di Pet Sound, sganciandosi dall’immagine da cartolina «sole, surf e ragazze in bikini». E in odore di proto-prog incrociato con la psichedelia ci sono anche i Vanilla Fudge e, soprattutto, gli Iron Butterfly delle maestose e metalliche suite.
Ma è l’Inghilterra il vero crogiolo delle prime colate prog. Impossibile dar conto di tutto e di tutte le accelerazioni che a un certo punto fanno prendere al rock velocità radiante, ma si può tentare qualche raccolta di indizi. Ad esempio con i degni rivali dei Procol Harum, i Moody Blues, identici inizi r’n’b, fin quando il tastierista Mike Pinder trova nel ’67, a prezzo stracciato, un mellotron: sembra un organo, in realtà i tasti azionano nastri magnetici preregistrati con suoni che una tastiera non potrebbe avere: ottoni e legni, fiati vari, rumori. Nasce il maestoso fondale «sinfonico» dei Moody Blues. L’etichetta Decca chiede loro un lavoro per gruppo e orchestra, loro si inventano Days of Future Passed, sette brani cuciti assieme in suite che raccontano la successione delle ore di una giornata, in studio incidono il tutto assieme alla London Symphony Orchestra: ci sono così tanti musicisti che qualcuno suona dal vano della porta. Raccontano: «Il segreto era stato mettere assieme un gruppo di persone troppo stupide per capire che noi non avremmo dovuto essere in grado di farlo». Nel successivo In Search of the Lost Chord arriveranno anche flauti, sitar e tabla, e molti riferimenti alle sostanze psicotrope che «allargano l’area della coscienza». E così via, almeno fino ai primi Settanta.

L’ALBO D’ORO
L’albo d’oro del proto-progressive inglese completa la triade di base con l’arrivo dei Nice, sempre 1967, in cui milita un giovanissimo e irrequieto Keith Emerson, tastierista dalle strepitose capacità tecniche. Inizialmente quartetto, poi trio con tastiere in primo piano, la prova generale di Emerson Lake & Palmer, in sostanza. Loro azzardano un pastiche memorabile e pure convincente che mette assieme Beatles e Bernstein, Sibelius e Jimi Hendrix, Bach e Dave Brubeck, Dylan, Rachmaninov e Charles Lloyd. Funziona. E Keith Emerson impara che incuneando uno spessore tra i tasti dell’organo Hammond può ottenere e pilotare strani suoni distorti. Un roadie che li segue nei concerti lo convince ad usare scenografici coltelli, gliene regala un paio: sono pugnali nazisti. Il roadie è Lemmy Kilminster, futuro imperatore grezzo del punk metal più duro al mondo, quello dei Motörhead. Emerson ha più volte ripetuto che le sue lunghe cavalcate alle tastiere tra jazz, classica e rock non sarebbero esistite se non avesse teso le orecchie a un nome che non è passato alla storia: eppure Don Shinn è un maestro assoluto del proto-prog, e il suo Takes a Trip, conosciuto anche come Temple with Prophets, 1969, un caposaldo del genere. Altri nomi? I gloriosi Family di Roger Chapman, ugola potente e soul quasi identica a quella di Gary Brooker, anello di tenuta tarda psichedelia, folk rock acido, echi di blues e classici: Music in a Doll’s House, 1968, è un esordio che pesa molto, sulle future sorti del prog. I Tomorrow del disco omonimo, 1968, sentori di Beatles in caduta libera verso il prog: in formazione c’è il chitarrista Steve Howe, che da lì a poco fonderà un gruppo monstre del prog maturo, gli Yes. Giles, Giles & Fripp è invece il trio che anticipa, di un soffio e con molta fascinosa ingenuità (The Cheerful Insanity of…) l’esordio da brividi dei King Crimson del ‘69, In the Court of the Crimson King. E così via. Se ne potrebbero trovare decine di altri. Citando i Moody Blues: giorni intensi di un «futuro passato».