Come ha fatto Luigi Di Maio ad accettare che Roberto Garofoli, l’avversario numero uno del Movimento 5 Stelle nell’autunno del loro primo governo, 2018, la «manina» che secondo i grillini aveva spostato risorse dalla legge di bilancio gialloverde, favorendo di nascosto gli amici (la Croce Rossa, secondo le accuse del Fatto) e contemporaneamente penalizzando il reddito di cittadinanza, come ha fatto Di Maio a ingoiare che quel nemico giurato del grillismo dei balconi possa adesso occupare una delle caselle più importanti del nuovo governo, quella di sottosegretario alla presidenza del Consiglio? Perché è lì che siederà Roberto Garofoli, uscito dimissionario nel dicembre 2018 dal governo gialloverde e destinato da oggi a sostituire a palazzo Chigi proprio un colonnello dei 5 Stelle, Riccardo Fraccaro. Per capire cosa ha fatto cambiare idea a Di Maio, evento è vero non infrequente, bisogna forse guardare a un incontro riservato che il ministro degli esteri avrebbe avuto la settimana scorsa con il giudice costituzionale ed ex presidente del Consiglio Giuliano Amato.

Garofoli, giurista, magistrato, grand commis di stato, è assai vicino ad Amato con il quale una decina di anni fa ha scritto anche un libro sulla pubblica amministrazione. Probabilmente ci voleva il «dottor sottile» per riuscire nell’impresa di chiudere quella «guerra ai burocrati» scatenata dai 5 Stelle quando al ministero dell’economia c’era Giovanni Tria – che non brillò per difesa – e Rocco Casalino minacciò (in un celebre audiomessaggio) «mega vendette ai coltelli» contro i «pezzi di merda del Mef».

Garofoli, consigliere di stato, già capo del legislativo di diversi ministeri, nominato da Gianni Letta segretario generale della presidenza del Consiglio durante l’ultimo governo Berlusconi, poi capo di gabinetto all’economia con Padoan e Tria, divenne il bersaglio numero uno dei 5 Stelle, tanto da essere costretto ad andarsene, Ma non l’unico bersagli, perché da palazzo Chigi come dagli altri ministeri i grillini presero a bombardare anche il ragioniere generale dello stato, che rifiutava di «bollinare» i provvedimenti bandiera del Movimento – così come del resto aveva fatto quando al governo c’era Renzi. Quel ragioniere generale era Daniele Franco, il nuovo ministro dell’economia.