Una buona cassetta degli attrezzi è sempre a portata di mano del romanziere artigiano, quello che mira non alla realtà, ma alla verosimiglianza, che è più lustra, plasmabile e gradevole – in definitiva più accettabile per il lettore. Così nel Settecento cominciò la fortuna del romanzo inglese per opera di tre grandi inventori, che non erano uomini di lettere come Samuel Johnson, magnifico ma intrattabile caso di intellettuale classico. Un giornalista, Defoe; uno stampatore-editore, Richardson; e un giudice di pace, Fielding, scrissero per il loro pubblico incolto, provinciale, proteso verso una modernità tutta da inventare. Quei romanzi erano sintomi del futuro, e i loro protagonisti tanto autorevoli da avere il proprio nome in copertina. A Robinson Crusoe, Pamela, Clarissa, Tom Jones era stato affidato il compito di drammatizzare un sentimento profondo della collettività, ancora oscuro e contraddittorio, il desiderio e la speranza che l’accompagnavano.
Jane Gardam pubblicò Old Filth nel 2004, quasi a ottanta anni, che con un nuovo titolo già indicativo del tema – Figlio dell’Impero Britannico – esce ora da Sellerio («La Memoria», pp. 408, € 15,00) nella traduzione di Alberto Bracci Testasecca, e una nota di Chiara Valerio. Il soprannome di «vecchio sporcaccione» è usato dai colleghi dell’Inner Temple con affetto e ammirazione nei confronti di Edward Feathers, avvocato dalla lunga e brillante carriera, ormai in pensione. Perché Filth è anche acronimo della sua migliore battuta Failed in London Try Hong Kong, se fallito a Londra prova a Hong Kong, una speranza che spinge tuttora gli inglesi a provare l’avventura asiatica. «Il possente rumore di Hong Kong che si sveglia, l’andirivieni dei piccoli traghetti, la sensazione di un luogo di cui essere fieri. L’abbiamo fatto noi. Abbiamo capito come si fa. Ne siamo stati responsabili. Un luogo britannico». A Hong Kong Edward, allora un metro e novanta di fermezza e sagacia, con la moglie Betty, scozzese nata a Pechino, avevano abitato nel quartiere più elegante, il Victoria Peak,in vista del «più bel porto del mondo». L’enigmatica signora Feathers aveva collezionato gioielli e offerto il suo fermo conforto al giudice Filth se tornava a casa turbato dopo una condanna a morte. (Il cappellino nero che indossava per quelle sentenze lo aveva nascosto). Erano entrambi figli del Raj, cresciuti dalla servitù indigena, malese nel caso di Edward, ne parlavano il dialetto, e godevano tutta la selvaggia dolcezza di una infanzia privilegiata. Ma, come di consueto, ancora in tenera età erano stati spediti un Inghilterra per diventare inglesi, prepararsi a una carriera inglese in patria o nelle colonie. Consegnati a famiglie bisognose di guadagnare quel modesto sussidio, spesso vendicative su quei bambini indifesi, avevano vissuto lo straniamento, l’abbandono, l’inganno dei genitori: una cesura drammatica con l’infanzia. Impararono a non voler bene a nessuno, mai, per tutta la vita, i folli figli del Raj: «Non si lamentavano perché avevano la rete di sicurezza, l’Impero Britannico. Dovunque andavi rappresentavi la corona, e ovunque trovavi qualcuno come te … Anche qui in patria. Anche adesso. Vai in qualsiasi casa di questo genere, da Liverpool all’isola di Wight, e trovi il trofeo di caccia appeso al muro, pelli di tigre sul pavimento, e una fotografia del grande Durbar».
Tra esperienza e scrittura Kipling, grande figlio del Raj, non aveva interposto convenzioni o artifici letterari, la ferita continuava a sanguinare ricordando quel suo dramma infantile in Baa Baa Black Sheep, un racconto autobiografico che è anche matrice di questo romanzo pubblicato più di un secolo dopo. Come scrive Manganelli, Kipling si confrontava «con il gioco atroce ed estremamente divertente dell’esistere. Amava gli accadimenti, e sapeva che gli accadimenti hanno un loro modo terribile di accadere…».
Gardam ha scritto molti libri per young and adults, è maestra della narrazione avvincente, merita il suo OBE (Officer of the Order of the British Empire). Conosce bene le mille pieghe dell’inglesità. Promette ai suoi lettori piacere e dolore, dilaziona improvvise e magiche soluzioni, troppo frequenti per essere credute anche dagli adulti. Ma ha il merito di aver aggiunto un’altra tappa crudele all’odissea dei figli del Raj, il 1991. In quella data Hong Kong passò alla Repubblica cinese, e la vecchia coppia di coniugi tornò in Inghilterra. Ma a morire l’ulissiade Edward vola a Hong Kong. «Il denso, poderoso calore si riversò su di lui e intorno a lui, gli leccò le gonfie, vecchie mani e gli stanchi piedi, gli si spalmò sul cranio e sul collo rigido, intrise ogni suo poro e fibra. Fermento di vita … ‘Attento, signore. La aiuto io. C’è qualcosa che non va?’ ‘Va tutto bene’ disse Filth. Le braccia premurose si distesero. ‘Va tutto benissimo’. Era a casa». Un romanzo meglio di un saggio può far emergere l’oscuro rimpianto, il desiderio irrisolto per l’impero perduto, una seconda patria solare, materna, fulgida, che fermenta sotto «l’inverno del nostro scontento», oggi chiamato Brexit.