Varrebbe sempre la pena di rileggere l’epigrafe alla fine di una lettura, prima di riporre un libro, perché potrebbe servire a non lasciare che quello che si è letto si dissolva rapidamente come certi sogni al mattino che lasciano solo una persistenza di benessere – o malessere – mentre fatti e volti sognati si rarefanno fino a rimanere dei titoli senza spessore.

«LA CONOSCENZA è nella nostalgia, chi non si è perso non possiede»: Massimiliano Smeriglio ha scelto un verso di Pasolini del 1951 per introdurre Mio padre non mi ha insegnato niente (edizioni Fuori scena, pp. 176, euro 16), libro intimo, come l’autore stesso lo ha definito, e doloroso, che attraversa e ricombina le grammatiche del romanzo di formazione, della saga familiare, della memoria generazionale e della scrittura autobiografica che si rivelerà alla fine la vera urgenza di questa prova.

In questo senso il volume è un ulteriore passaggio nell’articolata bibliografia di Smeriglio, 58 anni, docente universitario, europarlamentare, editorialista anche per questo giornale, che finora aveva alternato prove letterarie di stampo noiristico a saggi più ispirati dalle sue esperienze amministrative e politiche. Uno scarto legato a un’interpretazione assolutamente peculiare della nostalgia «pasoliniana», ovvero senza alcuna contrapposizione tra un passato mitizzato, e dunque farlocco, e un presente confuso, anomico, violento da cui si vorrebbe evadere.

Come nei suoi precedenti romanzi c’è anche qui il quartiere romano della Garbatella dove l’autore è nato, cresciuto e dov’è tornato dopo gli anni di una formazione politica che ha seguito la parabola dell’Autonomia operaia romana, dentro e fuori l’università fino all’esperienza dei centri sociali. Ma tutta la famiglia di Smeriglio è vissuta in questo quartiere popolare della Capitale progettato sull’idea di una città-giardino, a ridosso di Gazometro, Centrale elettrica e mercati generali, poi deformata dal Ventennio e dalle vicissitudini urbane e sociali del dopoguerra.

E LA GARBATELLA è la cornice principale di una vicenda, che solo d’estate si dilata fino al mare di Ostia («un mare che era la foce del Tevere»), e da cui ci si allontana solo per andare allo stadio. Ma prima ancora, Garbatella è il teatro della vicenda dei suoi genitori bambini e dei suoi nonni materni. Una famiglia che necessariamente impatta la Storia, quella dei libri – un bisnonno trucidato alle Fosse Ardeatine, un nonno facchino ai mercati generali, il Pci partito-chiesa identitario, una educazione sentimentale dell’autore scandita da alcuni eventi chiave come l’omicidio di Valerio Verbano e prima ancora quello di Vincenzo Paparelli durante un derby, l’irruzione sulla scena del movimento studentesco della Pantera – ma che vive una dinamica di coppia e genitoriale che ha bisogno di essere restituita, confessata. Che ha bisogno di trovare parole per non rimanere brusio di fondo. La memoria personale è un ingranaggio complesso che si muove tra riemersioni imprevedibili e meccanismi di aggiustamento. La scrittura è la più antica tecnologia per tenere testa a queste polarità, la vita in fondo si cerca anche dentro di sé.

Smeriglio sembra voler fare i conti con le sue radici, contestualizzandole dentro una storia collettiva ma mettendo a fuoco via via la singolarità di una famiglia, leggibile solo in parte alla luce dei processi sociali dentro cui è inserita, scavando anche fino a dove la vicenda diventa più cruda, dolorosa, intima, quel tipo di dolore che determina la fatica di stare al mondo.

SI SCRIVE PER NON MORIRE, per cercare di raccontare tutto ciò che ferisce, ma anche tutto ciò che salva, per non abbandonarsi al rimpianto, per non dimenticare nulla, per non annegare. Esiste un confine sottile, impalpabile, tra la scrittura autobiografica e la scrittura d’invenzione, si somigliano certo, ma quello che nella seconda è libertà autoriale nella prima diventa rimozione, censura, autocensura. E questo libro si muove proprio su questo crinale con onestà e una scrittura asciutta capace di trasportarci rapidamente lì dove la trama si fa confessione esplicita di sé, quasi un colpo di scena, travaglio che non consola ma che tuttavia va raccontato.