Tante voci che si rincorrono, una sola tessitura polifonica riassunta in canzoni a convogliare schegge vitali che si urtano, si rinforzano, giocano al rimando, ricostruiscono un mosaico che ancora oggi è in movimento. Le ragioni di un decennio, come ha intitolato un bel libro Giovanni De Luna. Le voci del ’77, o meglio, la voce di un decennio che possiamo anche datare a qualche anno prima dei Settanta, e che ha costruito idee almeno fino a quei due «sette» uguali, quando cominciò un’altra stagione, e in Italia si cominciarono a «disoccupare le strade dai sogni». Chi non ha proprio ragione di rinunciare a sogni, idee e ragioni sono i sempre presenti Gang. Che dopo aver dato alle stampe, un paio d’anni fa, un disco epico e surriscaldato come Sangue & Cenere, inseguendo mille tasselli di libertà e mille filacce al vento di idee libertarie, adesso tornano con un lavoro ugualmente duro e immediato: Calibro ’77.

Undici brani da Lolli, De André, Pietrangeli, Bennato, Gaber, Guccini, Manfredi, Finardi, Ricky Gianco, De Gregori. Anche questo figlio di un crowdfunding , ben al di là di ogni aspettativa. Dove la prima precisazione, su quel titolo, la fa lo stesso Marino Severini dei Gang: «Calibro in un contesto è unità di misura delle armi da fuoco, ma in un altro vuol dire ’qualità, valore, importanza’». Del ’77 si è detto tutto e male: perché alla fine resta solo quell’ambiguo «anni di piombo». Invece, liberata dopo quarant’anni dalla versione dei vincitori, appare come la stagione di un nuovo umanesimo, dove un’infinità di culture giovanili diventavano una cultura, un sogno, un progetto, uno stile di vita. Certo, la distanza di linguaggi o e immaginario tra una canzone di Lolli e una di Manfredi è enorme, ma assieme compongono il grande affresco, lo spirito di quel movimento che sfondò il portone della storia di questo paese: il proletariato giovanile. Riproporle oggi è per noi una sorta di resurrezione dello spirito del ’77. Come dice Erri de Luca, abbiamo perso per diventare invincibili, per sempre. Spesso ricantare canzoni è la nostra personale ’danza della pioggia’: è un rituale che esorcizza l’angoscia della storia, che ti invita a considerare cosa ti sei perso di importante per strada».

Il suono dei Gang, in questo disco prodotto da Jono Manson è sempre più impastato di quello che si chiama «americana», rock classico con robusti fiati rhythm and blues.. «Noi siamo americanisti, ma nel senso che abbiamo sempre letto le cose del rock ’n’ roll con gli occhiali di Antonio Gramsci, quello del Quaderno 22. In questo senso siamo sempre stati l’’America dentro’ il rock italiano: Americana per noi vuol dire Le radici e le Ali, come il titolo del nostro disco. La canzone popolare moderna di Woody Guthrie che diventa Umanesimo cantato, la narrazione dell’umanità in lotta contro il tallone di ferro dei potenti». Jono Manson cosa pensa del vostro lavoro e dei vostri testi? :«È un amico e un ambasciatore, un tecnico del suono, un produttore, un musicista. E sa metterti attorno, come ha fatto, musicisti che vivono la musica come la vita: con leggerezza. Un giorno, per il disco Sangue e Cenere gli chiesi se lo metteva in imbarazzo che nella canzone Nino ci fosse spesso la parola «comunista». Lui mi rispose inviandomi una foto di un concerto dove suonava accanto a Steve Earle e Pete Seeger. Il commento diceva: ti basta?».

Nel mondo della musica liquida i Gang sembrano tenere ancora all’oggetto disco. E realizzato con il crowdfunding. «Come ha ben scritto David Byrne, oggi si aprono una serie di possibilità nuove per la fine di un pensiero unico su produzione, promozione e distribuzione del Bene musicale. E nel Caos rigenerante ancora una volta le vie del Signore sono infinite. La vera questione è il futuro della canzone. Che deve ritrovare il proprio futuro in luoghi scomodi, viaggiare, tornare a indicare la luna e non il dito. Oggi torna necessario separare ciò che è Bene da ciò che è Merce. La produzione del bene ha come riferimento la Politica, con la «p» maiuscola,  e la produzione della merce ha come riferimento il mercato. Siamo arrivati a questa confusione di «riferimenti»  da quando la sinistra istituzionale ha abbandonato al mercato produttori di beni culturali. E Pasolini è stato, ancora una volta, uno dei primi a capirlo e denunciarlo. Sul crowdfunding che ha permesso di realizzare Calibro 77: bisognerebbe chiamarlo ’cassa comune’. Come nelle società di mutuo soccorso. Crea partecipazione, e soprattutto crea economie, al plurale, nel senso che tutti quelli che lavorano al progetto riescono a pagarsi il giusto».

Alla faccia del fatto che i Gang non siano un gruppo «mediatico»e dei piagnistei logori sul cattivo stato della musica indipendente. Molte canzoni suoneranno diverse e nuove, arrangiate come sono. Ad esempio Cercando un altro Egitto di De Gregori, con l’andamento da ballad e i fiati. «De Gregori pensa sia il suo peggior disco, per noi è il più ascoltato da giovani. Mi ha sempre dato l’impressione che con quella canzone si potesse suonare e cantare Dylan in italiano. Ne abbiamo fatto una «danza sulle rovine», inseguendo il Paul Simon di Graceland, con i fiati che hanno la funzione «sociale» della partecipazione». E la scelta di Uguaglianza di Pietrangeli, peraltro resa come un brano di Crêuza de mä? «Veniamo da una famiglia operaia, di muratori. Quello che ci ha insegnato a suonare e ad amare i Creedence e gli Shadows, un amico muratore, è morto giovane in un cantiere. La canzone ci ricorda da dove veniamo e a che prezzo è stata pagata la modernità. Giuro che non avevo mai pensato a fare un tributo a Crêuza, nell’arrangiamento con l’oud suonato da Jeremy Bleich, che vuol essere un tributo a quella gente mediterranea che viene a cercare uno spiraglio di dignità da noi». Nel disco a sorpresa Venderò di Bennato: «Eugenio era un vero busker, lo incontravamo che suonava in mezzo alla gente come noi, chitarra armonica e tamburello, era la prova vivente che il country rock si poteva fare in italiano. La canzone poi è attualissima, sui ’guardiani del mercato’ musicale».

In chiusura c’è i Reduci, una canzone molto amara di Gaber sulla fine del movimento, come mai?: «È una canzone che non fa sconti, ma d’altra parte è la canzone sull’«amor nostro che non muore». La verità, per quello che mi riguarda personalmente,  è che non ho avuto proprio il tempo a disposizione per   sentirmi un reduce! Nel 79 con Sandro eravamo a Londra e scoprimmo il punk e i Clash. Non abbiamo avuto il tempo di leccarci le ferite e lagnarci. Da lì siamo ripartiti, con le chitarre elettriche e i giubbotti di pelle, e anzi, nel ’91, con Le Radici e le Ali abbiamo cercato di salvare quanto più potevamo di quel ’77 e traghettarlo verso il futuro».

Ma qualè la vostra  sinistra, oggi? «Siamo gente che continua a pensare alla politica come a una cosa alta e nobile, la mediazione tra sogni e bisogni, e per dirla con Rosa Luxemburg, «il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome». Siamo gente che cerca di costruire comunità e buone canzoni. Penso che abbiamo bisogno di pontefici nel senso letterale del termine, uomini e donne che sappiano costruire ponti tra generazioni, culture, civiltà, economie e non mercati. Dal letame della politica attuale deve nascere il fiore della differenza: con certa tradizione cristiana, le sinistre eretiche, le donne, i migranti, delle subculture».