È cominciata con l’inno di Mameli e le fotografie di due mondi completamente opposti: da un lato, i dieci giudici della Corte costituzionale, ricevuti con tutti gli onori, che impettiti sul palco del teatro di Rebibbia ascoltano in silenzio o mimano appena le parole, e dall’altro la platea di oltre 250 detenuti, tra cui una ventina di donne, che intonano a squarciagola Fratelli d’Italia come fosse il loro canto di libertà. Ed è finita con un’unica immagine potente: strette di mano, sguardi di ammirazione e sorrisi franchi tra uomini e donne che non sembrano più così distanti.

A TRARRE UN BILANCIO della prima tappa del «Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri», iniziativa senza precedenti che si è avvalsa del contributo di docenti ed esperti coordinati dal prof. Marco Ruotolo dell’Università Roma Tre, non può sfuggire che nello scambio di idee tra i giudici che hanno il compito di controllare la legittimità costituzionale delle leggi e coloro che le leggi le hanno infrante non è affatto detto che siano i secondi (quelli che facevano le domande ai primi) ad aver imparato di più.

Dopo i saluti delle autorità presenti (colpisce l’assenza del ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, sostituito dal sottosegretario Jacopo Morrone) e dopo la lezione introduttiva tenuta dal presidente della Corte, Giorgio Lattanzi, per circa due ore dodici detenuti e detenute hanno articolato altrettante domande ai costituzionalisti, dimostrando una preparazione approfondita dei temi trattati ma soprattutto regalando alla Corte un punto di vista tanto più interessante perché misconosciuto sul mondo del carcere e della giustizia. Con grande attenzione, i reclusi hanno poi ascoltato le risposte, e il confronto che ne è scaturito è stato trasmesso in diretta streaming sul sito della Corte costituzionale e in oltre 150 carceri e 15 istituti minorili, seguito simultaneamente da oltre 11 mila detenuti.

RaiCinema ne trarrà un docu-film, da questo «Viaggio nelle carceri» e dalle lezioni sui «frammenti di Costituzione» che i giudici terranno nei vari istituti (a Milano San Vittore il 15 ottobre, Nisida minorile il 19 ottobre, Terni il 29 ottobre, Genova Marassi il 9 novembre, Lecce femminile il 16 novembre, e in altri nel 2019).

IN OCCASIONE delle celebrazioni del settantennale della Carta Costituzionale, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la Corte ha deciso di uscire dal palazzo della Consulta e, in continuità con il viaggio nelle scuole effettuato l’anno scorso, ha scelto di entrare in quel «luogo non luogo» che, come ricordava un detenuto, Francesco De Blasi, era considerato da Pietro Calamandrei una delle porzioni più significative del territorio della Repubblica.

Il perché di questa scelta da parte dei giudici costituzionalisti – e perché proprio ora, che in Italia e in Europa tornano a spirare venti reazionari – lo ha spiegato lo stesso Lattanzi: «I nostri padri costituenti avevano conosciuto nel Ventennio fascista la mortificazione del carcere. Dietro la Carta costituzionale ci sono tante persone che sono state detenute. Per loro i diritti fondamentali non si fermano alla porta del carcere, e il carcere non significa esclusione ma impegno per una nuova inclusione. Non un dentro in cui si finisce, ma un dentro in cui si ricomincia». Non a caso la Consulta assegna «un ruolo decisivo alla dignità della persona», e negli anni «ha dichiarato illegittime varie norme dell’ordinamento penitenziario» (due solo nel 2018) perché non coincidevano con il fine rieducativo della pena in cui credevano i nostri padri costituenti.

Un concetto che non sembra proprio al centro dei pensieri del sottosegretario Morrone, che nel suo intervento ha voluto invece sottolineare l’«inderogabile necessità» del carcere, che tuttavia deve essere sede di un «percorso riabilitativo». E il bisogno di assicurare la «certezza della pena», «una rapida applicazione della sanzione» e al contempo la «presenza dello Stato in tutte le sue articolazioni nelle comunità più degradate e disagiate, dove criminalità e delinquenza si alimentano», in «un’ottica di prevenzione».

E INVECE, GRAZIE al contributo dei detenuti, nel teatro di Rebibbia è emerso ieri un quadro decisamente più sofisticato e approfondito delle problematiche dell’esecuzione della pena e delle ripercussioni sulla pubblica sicurezza. Anna Maria, detenuta di 68 anni e bisnonna, per esempio, ha posto il problema dell’affettività in carcere, necessaria non solo al detenuto «per non farsi dimenticare dal mondo fuori», ma anche perché la «pena non punisca i familiari che nulla hanno commesso», come ha sottolineato la giudice Cartabia.

Paolo ha ricordato che per «evitare la vendetta sociale» la pena dovrebbe essere flessibile e comminata in un «tempo ragionevolmente breve». Principio che – ha esortato il giudice Modugno – «deve essere reso concreto dal legislatore». Perché, secondo una recente sentenza della Consulta (149/2018), la personalità del condannato non resta segnata dal reato commesso ma è proiettata verso un rinnovamento, che è fisiologico e culturale insieme, dunque sensibile agli stimoli ricevuti.

E POI, ANCORA, i giudici hanno ricordato le varie sentenze o i tanti moniti della Corte su ciascuno degli argomenti proposti dai reclusi: la cultura come mezzo di trattamento; la formazione e il lavoro che scarseggiano o non sono di qualità; le pene accessorie che non favoriscono la riconciliazione con il mondo legale fuori dal carcere; la costituzionalità dell’interdizione perpetua dal diritto di voto, «il pezzo più grosso della cittadinanza», come l’ha definito Giuliano Amato; il diritto alla speranza negato dall’ergastolo ostativo; la logica che sottende la rieducazione in carcere di un cittadino straniero a cui poi viene negata la cittadinanza italiana; il motivo per cui in Italia non è permesso il ricorso diretto al giudizio della Corte costituzionale; la salute e il perché si debba ancora morire in carcere (domanda che ha ottenuto l’applauso più sentito).

E infine una domanda, posta da Giorgiana: «Sentiamo di un possibile ridimensionamento delle misure alternative e dell’accesso ai benefici di legge. Sarebbe sconvolgente, se fosse così. È possibile tornare indietro senza violare la Costituzione?». Il giudice Viganò ricorda che la Consulta ha emesso molte sentenze contro gli automatismi dell’applicazione della pena, afferma che «il trattamento non è un brain washing ma fa appello alla libertà interiore del condannato, alla sua autodeterminazione che ancora resta». Ma si ferma qui, e non dà giudizi sugli ultimi annunci governativi.

Qualcuno dalla sala evoca Marco Pannella.