Si chiama Gaia, ha capelli rossi e molte lentiggini. È una ragazzina e i suoi occhi distinguono con precisione il mondo ingiusto in cui le è capitato di vivere. Nell’ultimo romanzo di Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, pp. 304, euro 18), il nome della sua protagonista, Gaia, compare una sola volta, in calce a una lunga lettera. In tutto il resto del libro la sua voce è invece un io che nomina il reale restando «senza definizione».

Ha quasi tredici anni ma non tarda a presentarsi ipnotica nella sua severità, impietosa e ossessionata dalle parole; quella che viene raccontata non è però solo l’esistenza di Gaia ma anche della sua famiglia di cui figura dominante, letteralmente, è la madre, Antonia. Suo padre, Massimo, è ridotto in sedia a rotelle dopo essere caduto da una impalcatura. C’è poi Mariano, il fratello maggiore e due altri bambini, gemelli che non hanno grandi doti se non quelle di concludere il quadro di una famiglia piuttosto disitegrata e senza casa, senza contratti di lavoro in un presente ingordo e immiserito.

LA STORIA comincia nel 2000, siamo a Roma ma gli eventi cruciali si svolgeranno ad Anguillara Sabazia; questo nucleo disperante è descritto da Giulia Caminito con singolare competenza per la dissezione, un impianto perfetto del disastro, tagliente e senza repliche. Alle lotte per il diritto alla casa corrispondono quelle per tenersi un reddito andando a servizio negli appartamenti dei ricchi, forse risicato ma l’unico disponibile ad Antonia per campare figli piccoli e una persona con disabilità permanente. In questa costante oppressione che Antonia Colombo cerca di smantellare ogni volta con la sola presenza del proprio corpo, picchettando, sfondando, insistendo, si aggira la protesta di una umanità diseredata che ha perduto l’incanto, feribile dalla stortura delle circostanze e che ha abdicato da tempo alla speranza e alla rivoluzione, indifesa dunque ma con un senso sfrontato e cristallino di se stessa.

La rivendicazione e il suo tedio sono allora i nutrimenti principali e se per Mariano, presto inviato dalla propria nonna a Ostia, si trasformano in un allargamento politico nel gruppo anarchico di cui fa parte, per Gaia sono altre parti di un risentimento denso e limaccioso come il fondo del lago. Davanti ad Anguillara si stende quello di Bracciano, di origine calderica offre l’opacità di un presepe acquatico mai visto, letture davanti alle sue sponde e gite estive per imparare a tuffarsi.
Lago è parola magica, lo pensa Gaia insieme alla sua amica Iris, la sola che riesca a vederla addirittura coraggiosa; è rappresentazione, il lago, di una origine implosa e pietre in pancia, infine il petto simile a una camera magmatica, per una volta senza colpevoli.

GIULIA CAMINITO segue la crescita di una ragazza lungo una ferrovia comoda ma insufficiente, in un borgo che si fa sempre più affollato, tra contadini e possidenti, tra sfruttati e invisibilizzati. C’è un arco, tra la bambina difettosa e la donna pronta a essere amata, e in quel passaggio o sai dare giustizia di te stessa o soccombi senza che nessuno si accorga. Per Gaia, che poi davvero diventa grande, trovare i confini di sé non è mai stata impresa facile. La sua ritrosia primordiale rapidamente muta in rabbia improduttiva, sufficiente a scagliarsi con violenza per ciò che immagina le spetti. Spacca rotule, tira sassi, strappa capelli fino a incendiare la notte del suo più grande rifiuto.

Studia, con diligenza verso il dettato materno secondo cui il futuro si può conquistare con ostinazione. Nel frattempo guarda con sospetto la sessualità delle proprie simili, è imbarazzata dalle disgrazie altrui che comunque le arrivano da un fuori che la espelle. Sovverte allora l’anestetico delle mura domestiche in una esattezza: poco interessata alle ciarle dei suoi coetanei è altrettanto plausibile la domanda simbolica di risarcimento. La questione è infatti non sentire come gli altri, ritrovarsi assente, non prevista, senza che a nessuno venga in mente di chiedere con semplicità Ma tu, cosa desideri? Così si adegua anche lei a non desiderare, quasi niente. In quel quasi si apre la voracità di una delicatezza insostenibile. È pudore, insieme a una materialità in cui conta solo ciò che non si ha, fa restare un passo prima, indietro, di lato, e giorno dopo giorno una creatura silenziosa acquisisce una mira infallibile, vede lungo, è lei l’animale inaddomesticabile.

«L’ACQUA NON È MAI DOLCE» è romanzo del crocevia possibile, dell’abbandono al buio in cui si sparisce, di una disappropriazione dell’abitare capace di intrecciare esistenze di diversa intensità, è la scoperta di un premio enorme che pretende di essere visto, non può essere nascosto anzi grida Eccomi, dove tutto intorno è disfunzionale io mi piazzo proprio qui. E della crudeltà, sì, ce n’è tanta in questo romanzo, non può essere moderata in nessuna maniera, spunta invece a intermittenza ma ed è di uno scintillio marziale indimenticabile.