Un fastoso palazzo degli ori ha spalancato le sue meraviglie, qualche anno fa, a Villafranca di Verona: l’Archivio di Arnaldo Liberati ha letteralmente «liberato» pagine innumerevoli e preziose di Carlo Emilio Gadda dal silenzio decennale in cui sono state conservate e protette. Grazie al metodo rigoroso, innovativo di filologi e critici fra i nostri migliori, alcuni libri decisivi del Novecento oggi rivedono la luce, ricondotti al dettato e al senso originario, e soprattutto restituiti alla dinamica finora inafferrabile di una genesi sempre complessa, magmatica.

Entrato nel cànone definitivo dei classici del nostro tempo con l’edizione garzantiana curata da Dante Isella fra 1988 e 1994, Gadda emerge ora completamente rinnovato dal laboratorio editoriale fecondissimo della nuova edizione in progress presso Adelphi. Due anni fa, Paola Italia e Giorgio Pinotti pubblicarono, su un manoscritto sconosciuto e scoperto appunto nel Fondo Liberati, la «versione originale» di Eros e Priapo, restituendoci, con un’operazione di alta ermeneutica, un formidabile trattato di psicopatologia delle masse, nutrito di Freud, da leggersi non più solo come feroce invettiva antimussoliniana, ma come un acuto, potenziale Massa e potere italiano, inconsapevolmente scritto in parallelo al lavoro di Elias Canetti.

L’angoscia della scrittura
L’anno scorso abbiamo poi ricevuto in dono una Cognizione del dolore rivista sul movimento degli autografi da Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela (il quale nel 2012 aveva già messo a punto un’edizione nuova dell’Adalgisa, libro strettamente collegato a quel romanzo mancato ed esploso, Un fulmine sul 220, che Dante Isella definiva «album di straordinari disegni sciolti»).
Oggi Giorgio Pinotti, estraendo dall’archivio Liberati documenti prima mai visti, ci fa toccare con mano la compattezza di un Pasticciaccio dalla genesi davvero molto «pasticciata» (Adelphi, pp. 382, € 18,00). Ne cogliamo appieno, finalmente, la complicata dinamica costruttiva e l’incompiutezza prestabilita, e soprattutto il sottile lavorìo che incrocia molta scrittura coeva, e perfino il Fulmine sul 220, interrotto negli anni Trenta.

Nato negli stessi anni orribili (tra il 1944 e il 1946) in cui fu avviato l’Eros e Priapo «originale», il Pasticciaccio, dimostra Pinotti, nasce e si deposita tra faglie e scarti, sull’onda di un’unica «incontenibile ed esplosiva urgenza» di scrittura, legata a ininterrotti andirivieni. Com’è noto, nel 1946 Gadda cominciò a pubblicare il romanzo su «Letteratura», e subito Bonsanti si propose, secondo la nevrosi dell’autore, nel ruolo del «tiranno che danna Gadda a un giallo impossibile, del “negriero” che lo lega “al banco della galera” e gli strappa le puntate a una a una». Con «successive, frenetiche trattative», Gadda promette libri a diversi editori, e quasi mai mantiene, interiormente straziato da orribili sensi di colpa, avviando così «una rovinosa carriera di “anticipista”» che offre «opere in fieri o solo progettate in cambio di anticipi mensili».
La ricostruzione che Pinotti fa degli strati e dei dislivelli struttivi offre materiali inediti di grande importanza per leggere in una nuova prospettiva il libro, che dietro il paravento del «giallo» senza soluzione lascia filtrare sempre più «il trapasso dalla Roma mussoliniana, mortifero gorgo di psicosi narcissica, al Lazio matrice di vita, dal romanzo cittadino al romanzo albano». Si illumina meglio, ora, questo doppio registro narrativo, fra città e campagna, ombre e luci, soprattutto se si ripensa a quanto Emilio Manzotti dimostrò nel 2007, in un saggio fondamentale per leggere il Pasticciaccio, intorno alla natura dell’intera opera gaddiana come «grande itinerario, sforzo di comprendere, di dominare una realtà sfuggente, una via d’accesso alla verità, ricca di bagliori premonitori».

Applicando a quello che definì «il frammento di una “telemachia” del Pestalozzi» una «tecnica per aggiustamenti successivi propria ai mortaisti ed agli artiglieri oltre che ai filologi», Manzotti propose allora una magnifica lettura della famosa descrizione con cui si apre il capitolo VIII, parodia dell’incipit del cap. IV dei Promessi Sposi, che alla luce dei nuovi materiali assume significati ancora più ampi.
Appare quasi incredibile, seguendo oggi la fittissima mappatura cronologica ricostruita da Pinotti, constatare come lo splendore assoluto dell’opera compiuta coincida con l’angoscia della scrittura sempre incompiuta, «in un tal forteto, in un tale marrucheto, da vederne fiorir per tutto, con le spine e il sangue, il fiore attossicato della disperazione, della rinuncia». Gli anni scorrono in una «fabbrica» senza fine che mette a repentaglio l’idea filologica di ultima volontà d’autore, tra correzioni, inserti, riallineamenti di strutture nel farsi e disfarsi dei progetti, scelte anche assurde e poi disattese (ampliare il romanzo a due volumi), ritocchi linguistici, fino alla limatura del romanesco condotta da Gadda sui «tratti» apparsi in «Letteratura» insieme con il poeta Mario Dell’Arco, che le carte dell’Archivio Liberati «ci permettono di osservare, quasi al di sopra delle loro spalle».

Appunti definitivi
Tuttavia una Sceneggiatura per il finale datata 15 marzo 1947, scovata ora nell’Archivio veronese, dimostra che già a quell’altezza cronologica (ovvero dieci anni prima dell’edizione garzantiana) «il disegno generale» era «minuziosamente definito». Decisiva, per capire «come lavorava Gadda», la conclusione cui giunge Pinotti: «Il Pasticciaccio “completo” è già tutto in questi brevi appunti. Il che non stupisce: nell’officina gaddiana il progetto, lo schema rappresentativo, benché spesso non regga all’esecuzione e imploda sotto la spinta della complessità del reale, è sempre il dato di partenza».
C’è una pagina splendida scoperta da Pinotti nell’Archivio Liberati e comunicata già un paio d’anni fa, ma oggi ricomposta nel mosaico d’insieme, che da sola giustificherebbe l’importanza strategica di questa edizione, anche in vista di un commento puntuale del Pasticciaccio che ancora si aspetta, pur dopo quello oceanico e mal gestibile, uscito nel 2015 da Carocci in due volumi (ma senza il testo!). Si tratta del «Finale imperfetto / del Pasticciaccio / Unico abbozzo / manoscritto», portato alla luce «all’interno di un bifoglio a quadretti usato come custodia» e databile ai primi giorni del 1948.

Echi della «Cognizione»
Lo si vorrebbe trascrivere tutto, e non si può. Basti l’inizio, la cui intensa liricità Pinotti acutamente avvicina alla Cognizione e a un racconto inedito del 1945, per gli spunti tematici tipicamente gaddiani: «Da strane lontananze della campagna, non identificate dal labirinto, né presagite dal dolore, una repentina cagione si offrì, di che le imagini del territorio fisico, del cielo a nubi, si rappresero modulatamente: come quando la speranza, o la disperazione, viene collocata nell’ignoto: forse vanirono e si tramutarono al credere in un’apparita di malìa. Quel paese così venuto da prodigio o quella sconosciuta natura sembrava rapprendersi in una estensione mentale, non spaziale: un silenzio non più geologico ne costituiva il supporto, conferiva al sogno, o all’incanto, l’indeterminata immanenza delle cose eternamente perdute, e, per ciò solo, eternamente esistenti».