Mentre la crisi climatica colpisce con eventi estremi in diversi Paesi, dalla Germania al Canada, dalla Cina all’India, il G20 non riesce a concordare su un elemento essenziale per combattere la crisi in atto: la decarbonizzazione.

Infatti, anche se il documento approvato al G20 ambiente di Napoli ribadisce formalmente gli impegni dell’Accordo di Parigi, non contiene due punti cruciali. Il primo è l’obiettivo di dimezzare le emissioni entro il 2030 e l’altro, collegato di fatto al primo, è quello di uscire più rapidamente dall’uso del carbone. In questo modo, l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura del pianeta entro i 1,5°C è già sostanzialmente saltato. Infatti, per mantenere aperta la finestra di uno scenario globale che stia entro quel limite è necessario dimezzare le emissioni globali di CO2 entro il 2030 per poi azzerarle, globalmente, nei successivi 20. Eppure, gli stessi Paesi del G20 riconoscono formalmente le conclusioni del rapporto Ipcc che evidenzia come tra 1,5 e 2 gradi di aumento i danni da attendersi siano ben maggiori.

Anche se, come apprendiamo dalla cronaca, l’India ha avuto la posizione più rigida, il ruolo della Cina appare quello cruciale. Se non deciderà una traiettoria più rapida di progressiva eliminazione del carbone, sia a livello nazionale che nell’area della nuova Via della Seta, la speranza di contenere la crisi climatica è messa all’angolo.

Non sappiamo se questa indisponibilità cinese, a fronte dello sforzo negoziale dell’inviato sul clima americano John Kerry e del ministro Roberto Cingolani, è definitiva o se fa parte della dinamica di confronto con la nuova amministrazione di Joe Biden. Lo abbiamo scritto più volte: il successo politico dell’Accordo di Parigi – che rimane un accordo importante sul piano negoziale – era anche legato a un quadro di cooperazione tecnologica Usa-Cina che oggi sembra far parte di un’epoca remota. E, invece, ci sarebbe bisogno di una nuova fase di collaborazione su un tema che è riconosciuto cruciale da entrambe le potenze.

Se la situazione non cambia, dunque, dovremo aspettarci danni climatici molto superiori come a suo tempo ha evidenziato il rapporto dell’Ipcc e di cui gli stessi ministri del G20 riconoscono le analisi. Con questa divergenza sui tempi, il vertice G20 di Roma a ottobre non potrà essere un successo e, cosa più grave, anche la possibilità di riuscita della COP26 a Glasgow di novembre – mantenere aperta la possibilità di limitare a 1,5°C l’aumento della temperatura – è oggi ridotta al lumicino.

La dinamica di chi frena le politiche c’è a livello globale come anche in Italia con le resistenze dei soliti settori legati alle fossili – per ultimo la motor valley – cui il ministro Cingolani ha fatto da amplificatore invece evidenziare le opportunità della transizione ecologica che dovrebbe guidare. A giudicare dal profilo del ministro e dalla sua scarsa convinzione nel ruolo, certo non ci si poteva aspettare un miracolo al G20 – già difficilissimo – con la sua presidenza.

Se i principali Paesi non convergeranno su impegni seri e tempi la finestra per evitare le conseguenze più catastrofiche si chiuderà. E dunque avremo danni climatici ben peggiori di quelli che vediamo oggi con un pianeta più caldo di 1,1°C rispetto all’era preindustriale. La copertina dell’Economist titola che nessun luogo sarà sicuro con un futuro aumento di 3 gradi (No safe place. The 3°C future) e, infatti, quello cui stiamo assistendo è solo un pallido assaggio di quello che potrà succedere in uno scenario di riscaldamento globale senza controllo.

Se a pagare i costi più alti della crisi climatica sono i paesi più poveri – e i poveri in generale – che hanno meno risorse per difendersi o ricostruire, la crisi climatica colpisce ovunque già oggi. Nessuno si salverà da solo: il lavoro negoziale è ancora tanto, nonostante la poco condivisibile soddisfazione del ministro Cingolani all’esordio su un tavolo internazionale.

L’autore è direttore esecutivo Greenpeace Italia