Succedeva all’inizio del 20esimo secolo. Da quel momento, e per circa trent’anni, una sfilza di artisti filosofeggia aggressivamente, gridando, ad esempio, che «bisogna portare nella musica tutti i nuovi atteggiamenti della natura, sempre diversamente domata dall’uomo per virtù delle incessanti scoperte scientifiche. Dare l’anima musicale delle folle, dei grandi cantieri industriali, dei treni, dei transatlantici, delle corazzate, delle automobili e degli aeroplani. Aggiungere ai grandi motivi centrali del poema musicale il dominio della macchina ed il regno vittorioso dell’elettricità».
PAZZO BACH
Il risaputo oltranzismo futurista che, fin da subito, vuole uccidere il chiaro di luna e bruciare musei e accademie, per altri versi è consapevole e rispettoso di una storia nobile, al punto che quanto appena scritto da Francesco Balilla Pratella è l’epilogo di un manifesto che inizia così: «Tutti gli innovatori sono stati logicamente futuristi in relazione ai loro tempi. Palestrina avrebbe giudicato pazzo Bach e così Bach avrebbe giudicato Beethoven e così Beethoven avrebbe giudicato Wagner (…)».
Quello tra la musica e il futurismo è un rapporto complesso, del quale nel 2020 si celebrano i 110 anni della prima sortita ufficiale con il citato primo Manifesto dei musicisti futuristi (11 ottobre 1910) a firma del solo Pratella, il decimo a uscire pubblicamente, venti mesi dopo Fondazione e Manifesto del Futurismo redatto da Filippo Tommaso Marinetti. Sugli altri 120 proclami finora riscoperti, ben 17 riguardano la musica, benché essa sia alquanto minoritaria rispetto alla produzione artistico-letteraria. Anche il penultimo e terzultimo fra le «grida», uscite in un periodo cruciale in merito alla sorte dell’Italia stessa, concernono sempre gli aspetti musicali della cultura futurista.
Ma a proposito di anniversari sottaciuti, è utile ricordare che nel 2019 ricorrono anche i 90 anni dalla presentazione ufficiale a Parigi del rumorarmonio di Luigi Russolo; la curerà Edgar Varèse (1885-1965), un giovane compositore di stanza nella capitale francese, francoitaliano, poi naturalizzato statunitense, sperimentatore assai prima di John Cage, e amato trasversalmente da Charlie Parker, Frank Zappa, Luigi Nono, Bruno Maderna, Giacomo Manzoni.
Sempre il 2019 ha segnato il quarantennale del primo sdoganamento della musica futurista, attraverso un doppio album in vinile, riproposto dieci anni dopo in digitale con 2 cd. Il 33 giri chiamato semplicemente Musica futurista viene edito nel 1979 dalla Cramps di Gianni Sassi, label indipendente tra le più combattive e pure la più variegata a sinistra, proponendo un catalogo fitto di jazz, folk, cantautori, prog rock e soprattutto musica colta di estrema sperimentazione, che vede di volta in volta protagonisti dagli Area a Finardi, dagli Skiantos a John Cage.
Musica futurista è un’antologia curata da Daniele Lombardi, il quale da allora a oggi lavora indefessamente a sempre nuove ricerche sul tema, come viene testimoniato in seguito sia dalla sua Nuova enciclopedia del futurismo musicale sia con il box di otto cd tra ulteriori aggiunte di omaggi e tributi. Quando si parla di suono futurista bisogna tener conto della cultura dell’improvvisare che è da relazionarsi alla storia dello spettacolo, a sua volta idealmente riconducibile alla commedia dell’arte di origini rinascimentali con attori girovaghi, i cui spettacoli mascherati fanno il giro d’Europa, assemblando un’estetica della totalità in senso multisciplinare che, partendo da semplici canovacci, consente ai protagonisti di recitare, cantare, ballare, suonare, variando liberamente temi, spunti, occasioni. Si tratta di un’esperienza che non nasce dal nulla e che viene riscontrata prima, durante e anche dopo la commedia dell’arte, nella musica folclorica, diffusa con marcate identità regionali lungo l’intera penisola, oppure proseguendo nell’iter evolutivo dello spettacolo musicale, anche nell’opera lirica, dove le cronache ottocentesche parlano dei gorgheggi improvvisati da parte dei cantanti, graditissimi al pubblico per via di un virtuosismo vocale talvolta portato all’eccesso. Ma l’idea dell’espressione estemporanea insita nella commedia dell’arte conduce direttamente, circa tre-quattro secoli dopo, alle cosiddette serate futuriste, antesignane, a loro volta, di happening, environment, performance delle neoavanguardie dagli anni Sessanta del Novecento sino ai nostri giorni.
Dunque, agli inizi del Novecento, in seno al nascente futurismo italiano, noto ai più come letteratura e arti plastiche, si manifestano interessanti atteggiamenti espressivi, anche in un linguaggio come quello musicale che, nel resto d’Europa, risulta complessivamente estraneo al dibattito spesso accesissimo sulla volontà di rivoluzionare l’estetica occidentale in toto, dalla poesia alla prosa, dal mosaico alla pittura, dall’architettura, alla statuaria, dal teatro alla danza, dalla nascente pubblicità alla moda, dalla fotografia al cinema, anche mediante un’assidua, costante elaborazione teorica, come andrà facendo per oltre trent’anni il gruppone di Filippo Tommaso Marinetti. In tal senso è difficile poter «parlare» direttamente di musica in movimenti come dada, bauhaus, Die Brücke, Der Blaue Reiter, fauve, De Stijl, cubismo, surrealismo, raggismo, suprematismo, e in Italia metafisica, corrente, Novecento, se non a posteriori, grazie alla presenza di compositori che fiancheggiano l’attività dei colleghi di altre discipline, senza tentare di esternare un pensiero che faccia poetica o teoria o che risulti lavoro di gruppo.
ONDATE SPERIMENTALI
Il futurismo italiano è dunque l’unico a lanciare manifesti, grida, proclami, con toni spesso imperiosi, arroganti, eccessivi che dovrebbero supportare un’attività creativa altrettanto densa, fenomenale, oltranzista: nella prassi in realtà il futurismo musicale risulterà quantitativamente minoritario rispetto agli scritti programmatici, che avranno invece positive ripercussioni su quanto accadrà, soprattutto nel secondo dopoguerra, con nuove ondate sperimentaliste, non a caso chiamate neoavanguardie. La poetica musicale futurista azzarda un ruolo poliedrico per le nuove sonorità che dovrebbero sostituire il passatismo riscontrato nella devozione del pubblico per il melodramma di Giuseppe Verdi, a cui Marinetti contrappone la potenza teutonica di Richard Wagner.
Ma sono in realtà i compostori Balilla Pratella e Luigi Russolo (in misura minore Franco Casavola e Primo Conti), nei primi celebri manifesti (e in alcune occasioni concertistiche) a rivelarsi di una fenomenale preveggenza sugli effettivi distintivi nell’attualità novecentesca, a iniziare dal ruolo primario della musica futurista che risulta di ordine didattico-pedagogico. «Disertare licei, conservatori e accademie musicali», annuncia alla fine il primo già ricordato Manifesto dei musicisti futuristi, a cui segue, l’11 marzo 1911, ancora di Pratella, il manifesto La musica futurista-Manifesto tecnico, in cui si indicano atonalità e ritmo libero quali basi del nuovo pensiero musicologico, tanto da far pensare al free jazz di 50 anni dopo.
UNO CONTRO L’ALTRO
E proprio il jazz viene evocato dalla frangia più anarchica e sinistrorsa dei futuristi (contro la destra wagneriana, pre-fascistoide) appena finita la Grande Guerra. Accentuando la propria battaglia quotidiana per ricostruire simbolicamente l’intero universo, ecco che il movimento futurista, anche in campo musicale, spinge all’estremo la propria lotta contro il passatismo e la conservazione (stessa etimologia «conservatorio»); i futuristi, come fanno altre avanguardie – il cubismo con maschere, statue, totem dell’Africa subsahariana – diventano etnomusicologi ante litteram quando sostengono l’importanza dell’uomo cavernicolo che, dalla notte dei tempi, inizia a cantare, a battersi il torace e poi mani e piedi, magari a sfregare due bastoni l’uno contro l’altro o a percuotere pelli animali essiccate e distese per approntare rudimentali tamburi: un’idea rituale e orgiastica che, acusticamente, rimanda al concetto di musica quale suono, baccano, cacofonia, rumore.
Il jazz ritenuto musica selvaggia, rozza, primitiva, sessuale dai benpensanti, accademici, bigotti, reazionari, è invece preso a modello da molti futuristi per un duplice aspetto, in un’intricata alleanza fra arcano e moderno: da un lato viene esaltata la furia quasi iconoclasta della velocità e dell’irruenza negli aspetti ritmo-timbrici; dall’altro si guarda con una punta di invidia al jazz quale colonna sonora delle città Usa, dove i grattacieli iniziano a spuntare come funghi e le automobili a invadere la viabilità stradale.
Evitando accuratamente la linea creata da Johann Sebastian Bach (barocco) – e perseguita da ogni suo «continuatore» anche oltre la scuola di Vienna (dodecafonia), per i quali la musica sta a connotare sia l’ordine e la disciplina, sia una autentica dialettica tra la scienza, la matematica, la tecnica – i futuristi (o almeno una parte di essi) rispondono tanto attraverso il caos e la disarmonia quanto mescolando tribalismo, improvvisazione, libertà, anche in chiave interdisciplinare.
Per creare una musica futurista, dunque, viene teorizzato (e praticato) l’impiego dei materiali bassi appartenenti alle subculture popolari per fonderli o intrecciarli fra di essi o anche con le tradizioni nobili, avvicinando, quindi, con fare dissacratorio quasi tutte le esperienze leggere della belle époque, dalla canzonetta alla sceneggiata, dal varietà alla rivista, con un occhio di riguardo anche alla messinscena, fra drammaturgia e rappresentazione, come riesce Rodolfo De Angelis in anticipo di mezzo secolo sul teatro-canzone alla Giorgio Gaber.
C’è però il futurismo di Russolo che insiste sulla pura sperimentazione, arrivando sia all’astrattismo musicale – senza percorrere l’astrazione dodecafonica di tipo geometrico – sia al superamento del concetto di musica, così come intesa fin dalla preistoria, per approdare al rumore quale risorsa della moderna civiltà industrializzata, meccanizzata, tecnologizzata, in anticipo di circa mezzo secolo sulla musique concrète francese e sull’elettronica della scuola di Darmstadt.
In questo Russolo è categorico anche nell’andare oltre i tradizionali strumenti musicali, per inventarne di nuovi, anzi un’unica «macchina» in grado di creare, riprodurre, suggerire, diffondere ogni gamma di suono/rumore.
Nel 1913 poco dopo la stampa del manifesto L’arte dei rumori, Russolo presenta il suo intonarumori, un apparecchio grande quanto una stanza d’appartamento, cubisticamente realizzato con leve, casse, mobili, imbuti, altoparlanti, in grado di simulare ululati, scoppi, rombi, stropiccii, gorgoglii, sibili, ronzii, mentre otto anni più tardi con il rumorarmonio ne perfeziona il congegno tecnologico-comunicativo, inventando il mezzo congeniale all’amplificazione di ogni effetto musicale proposto dall’intonarumori stesso.
ORTAGGI E UOVA
Entrambi vengono quindi impiegati, a livello «concertistico», in Italia e all’estero, in spettacoli puntualmente contrappuntati da scomposte reazioni di un’audience perlopiù borghese che reagisce in maniera virulenta (lancio di ortaggi, uova ecc.) creando la mitologia delle «serate futuriste». Purtroppo dei live con intonarumori o rumorarmonio – fra l’altro andati misteriosamente perduti già dagli anni Trenta – non resta che qualche cronaca risentita e naturalmente le tracce scritte dagli autori sul come gestire i singoli eventi: tra il 1913 e il 1914 vanno in scena il poema sinfonico Inno alla vita (Pratella), la «spirale di rumore» Risveglio di una città (Russolo), il poema sceneggiato L’aviatore Dro (ancora Pratella), tra echi lontani di Claude Debussy e di canti popolari e rumori assordanti di motociclette e sirene.
In questo modo, insomma, la musica futurista si presenta, dagli anni Dieci all’inizio dei Venti, come rivoluzione globale in grado di riunire tutte le arti performative, soprattutto durante le chiassose polemiche ‘serate’, dove può accadere di tutto, anche qui in anticipo sugli analoghi eventi Dada e surrealisti e soprattutto in netto preavviso tanto sulla linea musicale americana che da George Antheil ed Edgard Varèse conduce alla poetica aleatoria di John Cage quanto sulle azioni sempre statunitensi relative a happening e environment, che nel rock hanno in parte un corrispettivo artistico nell’Exploding Plastic Inevitable di Andy Warhol con i Velvet Underground. Tangente alla musica persino la poesia tende a espandersi oltre la parola nell’immagine disegnata o pittorica (poesia visiva) e nella phoné che sarà alla base del lettrismo francese e poi della poesia sonora degli anni Sessanta, nelle rielaborazioni al computer e su disco oppure in versione performativa, lambendo gli interessi del Gruppo 63 (Nanni Balestrini) e di amici fiancheggiatori (Adriano Spatola e Corrado Costa).
Sta di fatto che ancora una volta la musica futurista anticipa i tempi anche nel rapporto con i mezzi di comunicazione, intuendo per prima da un lato l’importanza della registrazione discografica non soltanto quale strumento riproduttivo, ma soprattutto come procedimento espressivo intrinseco ai valori del sistema tecnologico; e dall’altro la priorità dei media moderni (la radio in primis) non tanto per diffondere quanto piuttosto nell’inventare nuovi linguaggi comunicativi anche attraverso suoni concreti o musiche sintetiche: eloquente a proposito resta il manifesto radiofonico La radia di Marinetti del 1933. Nonostante queste illuminanti premesse teoriche gli esponenti della musica futurista hanno un successo effimero: oltre Russolo, presente a Parigi con l’intonarumori, possono ancora essere ricordati ad esempio, stando all’antologia di Lombardi, Silvio Mix, Daniele Napoletano, Antonio Russolo, Virginio Mortari, Luigi Grandi, Aldo Giuntini. A loro vanno aggiunti, più come teorici, tranne i pianisti/performer Mario Bartoccini e Aldo Mantia firmatari dell’Improvvisazione musicale (1921), via via il pittore Fortunato Depero con Il complesso plastico motorumorista (1927), il gruppo futurista veronese per il Manifesto futurista per la città musicale (1933), lo stesso Marinetti e Giuntini per il Manifesto futurista dell’aeromusica (1934), Marinetti, Farfa, Giuntini, Giovanni Acquaviva, Luigi Scrivo (1943), Marinetti con Spara cantando canzone manifesto (1944) e Marinetti e Tullio Crali nel Manifesto delle parole musicali futuriste (1944).
Ma il vero protagonista su scala mondiale resta forse Alfredo Casella alla notorietà proprio con il futurismo, salvo poi rinnegarne l’estetica e «ripiegare» su un modernismo alquanto manierato. A lui comunque si devono nel 1918 i Balli plastici, con le marionette geometriche del pittore Fortunato Depero, in uno spettacolo dove le coloratissime figure lignee si muovono al ritmo delle partiture quadripartite tra Casella stesso, Gian Francesco Malipiero, il britannico Gérard Thyrwitt (Lord Berners) e l’ungherese Bela Bartok (con lo pseudonimo di Chemenow).
Casella è anche l’unico musicista a compiere un viaggio negli Usa, ad ascoltare il jazz nei club e a riportarne una positivissima impressione, com’è testimoniato dal libro 21 + 26, dove esprime un giudizio costruttivo sul genere, facendo capire tra le righe – quando parla di come la raffinatissima razza israelita adotti il jazz- il proprio positivo riferimento al George Gershwin di An American in Paris inteso come un ottimo tentativo di «una futura, prossima estensione nel campo sinfonico della tecnica jazzistica»; tuttavia campeggia nello scritto – come pure nel coevo La musica al tempo dell’aereo e della radio – l’idea aberrante di arte come «espressione di razze», con argomenti che, una volta perfezionati, avrebbero condotto l’Italia sull’orlo del baratro più vergognoso.