Il sistema bancario in questi anni è stato sottoposto a grandi pressioni, dalla tormenta finanziaria alla lunga coda dei crediti deteriorati.

All’interno di questo scenario sono intervenute le crisi dei debiti sovrani e la stagione delle politiche monetarie espansive e dei bassi interessi. Scelte, quest’ultime, che se da un lato hanno puntellato il sistema dall’altro hanno ridotto i margini di profitto. Stabilità e stagnazione, dunque. Ora che le banche sembrano aver ripreso un poco fiato, riparte la crescita fondata sui debiti e si registrano movimenti incomprensibili sul piano razionale.

All’inizio di quest’anno si era discusso a lungo della possibile fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank, cioè le due principali banche tedesche. La prima rappresenta il principale istituto per mole di titoli tossici ancora in possesso, mentre la seconda ancora paga le conseguenze della crisi dell’economia reale. La fusione tra i due colossi teutonici non è andata. Prima e dopo tale prospettiva si era parlato con insistenza di un’altra fusione, quella tra Commerzbank e Unicredit. L’ipotesi da subito risultava curiosa per le zavorre che attanagliano le banche italiane: le elevate quote di titoli pubblici che posseggono e le altrettante quote di crediti deteriorati. Eppure all’istituto milanese sembrava bastare qualche anno di bilanci in relativa ripresa per ambire a una fusione con un partner centrale della principale potenza economica europea.

Anche questo progetto sembra derubricato, nelle cronache non ve n’è più traccia, mentre giunge la notizia dell’agenzia Bloomberg, abbondantemente ripresa dagli altri organi di informazione, secondo cui Unicredit sarebbe intenzionata a presentare un piano di ristrutturazione all’insegna del taglio dei costi. Un taglio che, come sempre accade, è incentrato sul personale. Jean Pierre Mustier, l’amministratore delegato francese, dopo alcuni anni caratterizzati da un’opera di ripulitura dei bilanci, si pone l’obiettivo dell’efficienza e parte da un taglio degli occupati pari a 10 mila unità, circa l’11 per cento dei dipendenti, a cui dovrà aggiungersi una riduzione degli altri costi operativi per raggiungere una riduzione complessiva di spesa pari al 10 per cento.

Prevedibilmente l’efficienza si tradurrà in licenziamenti e compressione di diritti e tutele per il personale. Le cifre, afferma Bloomberg, potrebbero essere più contenute, ma questo è il piano della discussione. Se la ripresa in corso non consentirà una crescita dei ricavi sufficienti, allora arriverà la mannaia del taglio dei costi. Considerata la riduzione del personale già deliberata si giungerebbe a meno 14 mila unità occupate nella seconda banca italiana. Eppure ai vertici si parla di «banca paneuropea vincente».

In questo stesso periodo per Deutsche Bank si sono ipotizzati addirittura 18 mila licenziamenti, mentre Société Générale prevede una riduzione di organico di 1.600 posizioni. Insomma nonostante le politiche monetarie espansive, anzi proprio dentro i luoghi più prossimi alle banche centrali che le hanno attuate, cioè gli istituti di credito, la crescita non si afferma stabilmente e si prefigurano drastiche ristrutturazione. L’economia non riparte, ma l’ingegneria finanziaria forse sì, altrimenti non si spiegherebbero i confronti tra banche per fusioni o acquisizioni, quando contestualmente si studiano progetti a base di licenziamenti e riduzione dei costi.

Come mai in tempi di ripresa, per quanto modesta, la seconda banca italiana è costretta a licenziare lavoratori e lavoratrici e contestualmente la si ritiene un soggetto appetibile per una fusione con la seconda banca tedesca? La teoria mainstream parla di crescita che come la marea dovrebbe portare in alto tutte le barche, ma nel nostro caso alcune barche rischiano persino di affondare.