Dal punto di vista del capitale e delle istituzioni d’affari che lo rappresentano, la sospensione del lavoro e del consumo individuale è un atto troppo radicale e intollerabile. E dal punto di vista dell’Unione europea fin qui realizzata, vincolata al predominio di poche nazioni centrali e alla ideologia ordoliberista tedesca, è altrettanto insopportabile. Soprattutto nel momento in cui si deve decidere se elargire il cosiddetto Recovery Fund e il governo dell’Italia, paese più colpito dal Covid-19 e bisognoso – anche di mostrarsi per questo a tutti i costi pronto a riprendere ogni attività produttiva -, bussa alla cassa addirittura chiedendo per la prima volta finanziamenti «a fondo perduto».

Così si avvia la cosiddetta “Fase due”, sotto questo doppio ricatto. Che subito pesa sulle condizioni di ripresa delle attività, quelle legate alle forme della socializzazione, quelle dei servizi – a cominciare da quelli sanitari pubblici prima disprezzati e ora all’improvviso diventato «eroici» – e quelle del lavoro considerato direttamente produttivo. Un peso e un pericolo che precipita tutto sulle spalle dei lavoratori e del sindacato e sulla democrazia che vive nei larghi spazi, con una riapertura che, tacendo sulla scuola, privilegia l’«impresa» come interlocutore privilegiato.

Perché questo riavvio del 4 maggio e che ha già riportato in produzione 2,8 milioni di lavoratori – con quale distanza sociale nelle fabbriche, nei trasporti, e senza previsioni di riduzione di orario per l’esposizione al rischio? – avviene nonostante che i segnali veri di un rallentamento della pandemia in corso siano appena accennati, mentre i contagi aumentano. Diminuiscono i malati e i morti è vero, ma solo per effetto delle misure dure di distanziamento sociale decise un mese e mezzo fa.

E stavolta tutto il mondo dei virologi prevede una ripresa di pandemia lì dove si è manifestata ma anche in aree finora debolmente colpite. E centinaia di morti al giorno nelle aree del nord – delle fabbriche disseminate in aree interregionali -, non sono marginali. Soprattutto si dimentica che non ci sono le condizioni sanitarie diffuse, dopo decenni di tagli alla sanità pubblica: senza dispositivi di protezione distribuiti in massa e tamponature a tappeto, senza indagini a cluster della popolazione sui contagi, né test sierologici sugli anticorpi – e la tecnologia sui ’tracciati dei contatti’ senza tamponi è inutile e solo intrusiva.

Si dimentica altresì che, nel silenzio quasi assoluto – rotto però da scioperi operai – più di 15milioni di lavoratori in questi due mesi nei quali la pandemia ha dilagato, hanno continuato senza sosta a lavorare, un lavoro «forzato» nelle fabbriche e nelle campagne. Mentre tra una task force e l’altra è emerso il concetto mitologico di «lavoro eccezionale», scoprendo che fabbricare armi e cacciabombardieri F35 è stata la filiera d’«eccezione» finalizzata alle guerre, che non si è mai fermata, come non si sono fermate le tante fabbriche «essenziali» che hanno devastato ambiente e salute come l’Ilva. Così da una parte abbiamo avuto e continueremo ad avere il lavoro «necessario», magari in telelavoro e per il mercato internazionale, ma di produzione di morte. Con la corsa folle a riaprire le attività produttive per sfidare la concorrenza su fette di mercato che rischieranno l’iperproduzione.

Al contrario, dall’altra parte, si è affermato in questi due mesi di contagio il lavoro di cura, non più nel solo ambito ristretto della famiglia ma nella società, e ha assunto «dignità» l’intero comparto del lavoro nero, dai braccianti, ai migranti, ai rider.

C’è dunque un conflitto sotterraneo che la pandemia ha aperto e che vale la pena far emergere: il lavoro «necessario» può essere solo quello riconvertito nella produzione materiale secondo una domanda sociale e collettiva e a salvaguardia della salute, come da dettato della Costituzione. Come? Cominciando a considerare il lavoro stesso come fuori mercato, reinventando le regole della sua redistribuzione e garantendo, in una fase che fa esplodere i dati sulla povertà di massa, un reddito di base capace di garantire ogni lavoratore occupato ma anche ogni disoccupato: dai danni di una pandemia ma anche dal bisogno e dai ricatti del lavoro.