Dopo il voto di febbraio si è aperta una spaccatura tra il corpo elettorale e i partiti, che hanno riprodotto la stessa situazione precedente le elezioni. Non solo il governo Letta è sostenuto dalla medesima maggioranza, ed è stato creato dal medesimo Presidente che creò il governo Monti, ma di esso condivide l’attitudine di fondo, quella di perseguire l’adattamento del sistema istituzionale a nuove condizioni, e a nuove concezioni, del potere politico.

Le quali sono quelle che vediamo nelle cose e consistono nell’affermarsi dell’esigenza, che giorno dopo giorno diviene principio ordinamentale, che il governo possa procedere verso obiettivi tutti suoi, indipendentemente dal controllo e dall’indirizzo, dal consenso, e perfino dalla conoscenza dell’elettorato e della pubblica opinione.

Si tratta di una esigenza ben diversa da quella della stabilità e coerenza programmatica dell’esecutivo. I suoi teorici la chiamano «depoliticizzazione» delle democrazie, e serve a rispondere a problemi di questo genere: come si fa a imporre alla società i desiderata del neoliberismo, come si fa, per esempio, ad aumentare a dismisura le ore di lavoro di chi già lavora lasciando però moltissimi nella disoccupazione (vedi Pomigliano), quando quei desiderata vanno così tanto e così sfacciatamente contro il senso naturale dei bisogni e della vita, contro una logica domestica dell’esistenza, ossia una logica umana, sensata e a disposizione di tutti? Si rischia che la gente, poi, ti si metta contro. Ecco che occorre sancire una qualificata indipendenza del potere dalle persone sulla cui vita esso si esercita: ci vuole un governo che, succeda quel che succeda, persista, o che, detto altrimenti, faccia finta di nulla.
Proprio come un pilota automatico; o come nelle aspirazioni di certo liberalismo autoritario ottocentesco, specialmente tedesco e italiano (perché nulla è nuovo sotto il sole). Da noi, dove è d’uso fare una cosa dandole un nome diverso, la pratica della depoliticizzazione, già da tempo in atto, passa per una riforma «costituzionale» tendente a introdurre il presidenzialismo, o un rafforzamento dell’esecutivo, più efficienza del governo e bla bla. Tutte cose innocue e legittime, consultabili nei manuali e che tanti paesi hanno già e di cui anche da noi si è già parlato da tanto.

Ecco però, allora, un’apparente ma importante differenza tra la fase Monti e la fase Letta della ristrutturazione del potere in Italia. Monti, che non casualmente nel corso della sua presidenza ha nominato la parola Costituzione sì e no un paio di volte, ha perseguito l’adattamento per via di fatto, operando senza controllo né limite parlamentare e ostentando la convinzione che il governo, anziché esser tenuto a fare per il popolo quello che gli orientamenti in esso prevalenti chiedono, come dovrebbe avvenire in una democrazia rappresentativa, al massimo debba comunicare al popolo che cosa occorre gli sia somministrato. Ha prodotto i risultati conseguenti, per esempio e in particolare ha portato a termine l’opera, da lungi e da altri intrapresa, di azzeramento delle Camere; opera di cui oggi beneficia volentieri il governo Letta, che ha avviato il disegno di legge di riforma costituzionale ammonendo i parlamentari che non si sognino di non votarlo coi due terzi (onde impedire il referendum popolare). Se quelli non hanno fatto muro a difesa di una possibilità che deve essere garantita integra per rispetto alla sovranità popolare, è perché hanno scordato di rappresentarla, posto che, per l’appunto, sono ridotti a nulla.

Tuttavia il governo Letta, a differenza del governo Monti, non si accontenta dell’adattamento di fatto. Lo vuole sancito in norme «costituzionali». Se la riforma servirà a garantire potere al potere anche quando le manganellate, già oggi quotidiane, o le aree del paese presidiate da corpi di polizia (vedi Val di Susa), non si conteranno più, è domanda che non si fa, ed è anzi impressionante come si dia per scontato che tutti noi, i cittadini, non aspettiamo altro che assistere con sollecitudine al movimento con cui il potere, per spinta endogena (le riforme costituzionali erano nel programma di qualcuno?), persegue il suo proprio rafforzamento. E magari anche dirgli bravo, bene, ti capisco, poverino, hai i tuoi problemi, ho visto un Re.

È chiaro d’altro canto che al potere che aspira ad agire indipendentemente non interessa essere costituzionale, nel senso di limitato da vincoli e contropoteri. Gli ideologhi della depoliticizzazione lo dicono apertamente: altro che norme costituzionali, le istituzioni dei tempi attuali devono essere, è da loro che ho preso il termine, «adattabili» (Bergrruen e Garnfeld, Intelligent Governance for the XXIst Century, 2012). Se quel che ti preme è dare aria al potere, le istituzioni le vuoi flessibili: proprio come il capitalismo, anche il potere politico deve potersi autoregolare, che diamine. Come mai, dunque, il governo Letta vuole andare alla riforma, quale interesse vi è oggi a introdurre cose calcificate e antiquate come le norme costituzionali?

Il fatto è che si sa che non daranno alcun fastidio, quando dovessero risultare superate, o d’intralcio: quanto poco possano le norme scritte lo dimostra lo stato in cui versano quelle formalmente vigenti. Cionondimeno può essere interessante cancellare le norme che abbiamo, le parole che, poiché ancora espresse nel testo moribondo ma vivo di carica ideale (le istituzioni esprimono un popolo articolato e plurale che le indirizza, il governo risponde al parlamento, che rappresenta il corpo elettorale ed è, per esso, sovrano) continuano a permettere a qualcuno ogni tanto, come me in questo momento, di sollevare obiezioni, pensare e giudicare altrimenti.
Dopo la riforma avremo un ordinamento appiattito sul reale, sull’adesso, su quel che serve nel momento. E cioè che cambierà in modo rutilante, alla bisogna, ma intanto sarà stato stabilito che quella è la dimensione cui dobbiamo accontentarci di stare, una in cui l’immaginazione di possibilità diverse non ha terreno. Cioè nell’esatto contrario di una democrazia costituzionale.

E vivaddio, non sarebbe meglio dirselo apertamente, che è di questo che si tratta, o porsi almeno il problema? Ma è appunto per non dirlo che si fa la riforma «costituzionale». Mentre la società è fratturata dall’ineguaglianza, dall’ingiustizia e dall’omertà contro cui si era eretto il Mai più della nostra Costituzione, e che di essa disconoscono ogni giorno di più e brutalmente l’aspirazione e il progetto; mentre l’articolazione pluralistica delle istituzioni si fonde nell’indistinto di una colla uniforme, ecco che si svolge, compuntamente recitata, la farsa della continuità, si distilla il sonnifero della normalità.

Non a caso il governo si fa accudire dai professori e dalle professoresse di diritto costituzionale, peraltro assegnando loro, pare, non più di cinque minuti di parola a testa, e chiedendo loro riservatezza. È chiaro che una commissione così congegnata non serve ad aprire un confronto sui grandi, gravi, annosi problemi della nazione. Allora ha altra funzione: composta da «esperti», e risvegliando il ricordo di tante commissioni precedenti, ci rassicura che quanto avviene avviene nel rispetto, e come svolgimento, della Costituzione, che è tutto normale. Alle riforme si sa che ci pensiamo da tanto, perché scaldarsi? Heri dicebamus, farfuglia classicamente il Professore assorto e compiaciuto nella sua lezione mentre fuori il mondo è intanto cambiato per sempre. Ma bisogna capirli. Che cosa ci può essere di più appassionante, di più serio ed importante che fare i ritocchi alle norme sulla forma di governo, mentre il patto repubblicano va a pezzi?