Settembre ’79, i giorni di Patti Smith

Quello che gli studiosi definiscono «microstoria» è uno degli ambiti di indagine più interessanti e scivolosi che esistano. Interessante, perché un fenomeno che ha caratteristiche apparentemente minori può servire invece da strumento di indagine per un ambito assai più ampio di quanto circoscritto nella dimensione del «micro». Scivoloso, perché la tentazione di ricostruire il flusso degli eventi a partire da un fenomeno minore non sempre colpisce nel segno. Quando però restano in equilibrio scavo attento nelle fonti di informazione e perdipiù il microevento in questione va a situarsi nel centro esatto di quei crocicchi storici che individueranno poi a posteriori un «prima» e un «dopo», arrivano grandi risultati. La musica popular, in questo senso, ha scandito dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi gran messe di microeventi, che poi hanno acquisito status di perfetti indicatori di un’epoca. In Italia c’è un prima e un dopo Domenico Modugno che canta Nel blu, dipinto di blu, un prima e un dopo lo spettacolo del ’64 Bella Ciao. Goffredo Plastino, musicologo presso la Newcastle University, ci consegna un tassello microstorico importante che segna un prima e un dopo quegli anni definiti «di piombo». Le date sono il 9 e il 10 settembre 1979, l’occasione i due cruciali, difficili, esaltati e vituperati assieme concerti, a Bologna e a Firenze, che l’allora giovane sciamana del rock e della poesia Patti Smith tenne in Italia. Tutto questo in Rumore rosso/Patti Smith in Italia: rock e politica negli anni settanta, Il Saggiatore. Qui, in un continuo gioco di rimandi, di intersezioni, di mediazioni, la fiammata finale di creatività, bisogno di libertà e contraddizioni del movimento giovanile, quel filo rosso che si dipana dai dintorni del ’68 e arriva al grande freddo del «teorema Calogero» che immobilizza il ’77 nel riflusso degli anni Ottanta, appare con tutta evidenza. Impossibile riassumere la mole di testimonianze che Plastino convoglia ed elabora nel testo. Un puntatore laser che parte dai due concerti e diventa un proiettore che scandaglia e illumina un’epoca. Con tutta la sua gloria, le sue scorie, la sua consistentissima fragilità.

Cercando le risposte migliori

Daniel J. Levitin, è neuroscienziato, musicista e produttore in sala di registrazione. Nel 2008 Codice edizioni ha tradotto Fatti di musica/La scienza di un’ossessione umana, un libro importante, che scandagliava la misteriosa portata del piacere che ci arrecano le note e perché, le stesse, possano «aprirci una finestra sull’essenza della natura umana». C’era, nell’edizione italiana, una prefazione altrettanto importante, quella di Wu Ming 2, che sottolineava del testo molti snodi fondamentali, ad esempio il fatto che il cervello umano è costruito come una macchina per fare previsioni che ci servano. Specializzazione costruita nei millenni dalla nostra evoluzione. Questo concetto e molti altri che non si citeranno per non togliere il gusto della lettura li trovate in Reverberation (Corbaccio), che usa esplicitamente Levitin come fonte, ma di taglio assai più divulgativo. È costruito per capitoli brevi e ficcanti, con box compresi nelle pagine che approfondiscono aspetti tangenziali, diversità di colori nello sfondo per evidenziare le diverse sezioni, interviste a molti musicisti sulle stesse domande che pone – e si pone – l’autore, e infine su specchietti riassuntivi decisamente utili per fare il punto su quanto appena appreso. Dunque un testo dal taglio accattivante e dal contenuto spesso, molto adatto per un discorso chiaro che eviti le secche specialistiche, al contempo usando con pertinenza gran mole di dati scientifici di fatto. Reverberation, sottotitolo esaustivo Cervello e musica/Una relazione speciale che migliora la vita è opera di Keith Blanchard, scrittore e editore molto attento ai legami che intercorrono tra scienza, arte e creatività. La prefazione è curata da Peter Gabriel, che già negli anni lontani di The Lamb Lies Down in Broadway sognava un modo per chiarire come gli input sensoriali indotti dalla musica possano essere utilizzati per modificare il comportamento, mentre oggi ci stiamo avvicinando ad «avere a disposizione uno strumento potentissimo da utilizzare in qualsiasi situazione, dalla medicina all’educazione e alla psicoterapia». Reverberation, conclude Gabriel «non saprà dare tutte le risposte, ma ci aiuterà a formulare le risposte migliori».

Canta che ti plagio

Certo che passerà qualche tempo prima che qualcuno trovi un titolo di libro altrettanto efficace nell’innescare dirompente curiosità: Anche Mozart copiava e plagiava i Beatles. Chiariamo subito che non si tratta di fantascienza ucronica né di mero gusto del paradosso. È la frase che intitola il ponderoso saggio uscito per Minerva di Michele Bovi. Si tratta qui, in 367 pagine di fresca lettura e scafata metodologia, di plagio in musica. Argomento trasversale e universale, almeno da quando abbiamo la possibilità di consultare fonti, scritte o fonofissate che siano, o tutte e due assieme. Per il resto, in mancanza di registrazioni o documenti diretti dobbiamo fare ricorso alla storia tout court, perché qui il concetto di «plagio» va ad avvicinarsi piuttosto a quello di «evoluzione nel tempo»: di un brano, di una linea melodica… Poi c’è all’opera spesso la criptomnesia musicale: il credere in buona fede di aver inventato qualcosa di originale, salvo poi imbattersi nella fonte primaria di quel brano che s’era andata a incistare in un angolino della testa. C’è di tutto, qui, e ovviamente non tutto. La pubblicità e le canzoni per lo Zecchino d’oro, l’ecatombe plagiaria di Sanremo e le colonne sonore che «prendono in prestito» qui e là. Una bella squadra di collaboratori approfondisce aspetti svariati nei capitoli definiti «nota del… »: Giorgio Assumma quella del giurista, Girolamo De Simone quella del compositore, Vincenzo Mastronardi quella dello psicologo, Nicola Battista tratta del melomanipolatore, infine, ben più che interessante, Gianpietro Quiriconi introduce un tema cruciale che avrà bisogno di ulteriori approfondimenti, quello della relazione tra plagio, campionamento dei suoni e Intelligenza artificiale. Insomma, e a mo’ di esempio: non ascolterete mai più i Beatles di Let it Be senza farvi venire in mente il Canone in Re di Pachelbel, o Come Together da Chuck Berry, o scoprire che il ritornello di Yellow Submarine è un gemellino di «Jamme, Jamme» da Funiculì Funiculà, anno 1880. D’altra parte il Clan Celentano a propria volta si interessò in maniera sospetta dei Beatles, racconta Bovi: la canzone Come Adriano praticamente clona Norwegian Wood.

Il Novecento e le sue canzoni

Le arti, tutte, seguono direttamente e indirettamente gli snodi tecnici e la curvatura tecnologica del tempo in cui si trovano allocate. Leonardo da Vinci, che peraltro concepì il primo abbozzo tecnico della fisarmonica, una volta scrisse che la musica si trova in condizione di inferiorità rispetto alla pittura, perché il suo potere di fascinazione era inevitabilmente destinato a svanire con lo svanire della musica suonata, lasciando solo ricordi. Una riflessione su questa idea ci porta dritti alla pregnanza deflagrante di un’invenzione databile alla seconda metà del secolo che precedette il ’900, il «secolo del rumore» per dirla col sociologo Privato. L’invenzione della registrazione, strutturata sulle possibilità tecniche raggiunte in un dato momento di un’epoca data. Quando le ragioni di mercato della società dei consumatori di massa hanno incontrato quelle tecniche ed economiche che hanno permesso la diffusione dei supporti che «imprigionavano» la musica e la potevano riprodurre su macchine a buon prezzo, la desolata affermazione di Leonardo non ebbe più senso. Enrico Merlin, musicista e storico della musica già qualche anno fa aveva pubblicato una prima versione di 1000 dischi per un secolo/1900-2000. Adesso quel testo ritorna, per Il Saggiatore, e si fa notare. 1788 pagine, per un libro che, sulla bilancia, pesa un chilo e settecentosette grammi. Quasi intimidente. Ma è solo un fatto di mole necessaria, forse appena sufficiente, non di difficoltà di lettura. Perché sono ben definiti i parametri con i quali viaggiare in sicurezza, giocando di sponda a ricomporre un arazzo fonico in progress che si nutre di colori jazz, rock, sperimentali e avantgarde, blues, classici, contemporanei, e aggiungete pure tutte le etichette che volete: perché qui, dice Merlin, per le segnalazioni commentate conta il quadro sonoro, non la cornice che le avvolgono e stritolano in un’etichetta. Interessante anche che Merlin condivida molti dei paramenti usati dalla recente musicologia afroamericana: l’importanza decisiva di timbro, personalizzazione del suono, dinamica, interplay. Ognuno poi, potrà divertirsi ad annotare presenze ed assenze.

Luigi Tenco, anatomia di un cantautore

Occorrono perseverante acribia, volontà senza cedimenti, voglia di arrivare al fondo delle cose senza supponenza. Ci vogliono insomma molte cose e la capacità di maneggiare repertori d’archivio concreti ed evanescenti assieme, per realizzare un libro come Lontano Lontano/Lettere, racconti, interviste. Soprattutto, ci vuole la voglia netta di scrollarsi di dosso il fascino morboso di quel maledetto 27 gennaio a Sanremo che immobilizzò la vita e l’opera di Luigi Tenco a 29 anni nel buco di una pallottola. Non cercatelo qui, non troverete nuove ipotesi, in questo volume che è costato molta gioiosa fatica nella curatela a due esperti di canzone d’autore dai nomi assonanti come Enrico De Angelis ed Enrico De Regibus. Il libro del Saggiatore esce, giustamente, a firma Luigi Tenco. A loro è toccata la faticosa e splendida avventura di riunire tutto quello che si riesce a far emergere sulle scritture, le foto rare, le lettere, le interviste, gli abbozzi di mille sorprendenti percorsi intellettuali, un vulcano di creatività intuibile, forse, ma mai svelato come in questo testo. Perfino i temi di un Tenco bambino che già ragionava sulle cose e si poneva domande cruciali. Si esce fastronati e appagati da questa lettura e si conferma la statura altissima di Tenco. Un altro protagonista della canzone d’autore è oggetto di studio, per così dire, «di rifinitura» in Giorgio Gaber, Sandro Luporini e gli anni Ottanta/Gli spettacoli del decennio, pubblicato per Arcana da Fabio Barbero, che al milanese aveva già dedicato un’analisi cruciale degli spettacoli del decennio precedente in cui in scena c’è il Signor G. Questo libro si immerge nella storia e nelle storie di un decennio difficile, ricostruito con precisione, in cui l’accoppiata Gaber-Luporini prende atto di quell’onda di riflusso che sta travolgendo tutto, ma non si schiera né dalla parte degli apocalittici, né da quella degli integrati; a prezzo, spesso, di calcare sull’acceleratore di un moralismo sbigottito un po’ fine a se stesso, verso un nichilismo di fondo. Per dirla con l’autore, «tra rabbia e pietas».

Mogol-Battisti, assi in coppia

Ci sono libri che riassumono una vita di studio, di attenzione al particolare, di visione generale costruita sulla sedimentazione creativa di una pluralità di apporti proficui. A volte ritornano, questi libri, e quando si ripresentano hanno cambiato aspetto, dimensioni, e assunto nuova complessità. Nel 1997 per Castelvecchi apparve Mogol-Battisti, l’alchimia del verso cantato, un bel tomo a opera di Gianfranco Salvatore, allora quarantenne. Salvatore, docente all’Università del Salento, storico culturale, etnomusicologo, musicista, è uno dei più brillanti pionieri in Italia (e non solo) nello studio della popular music, sempre contestualizzata nel cuore della complessa e rizomatica vicenda della grande famiglia di note afroamericana. Ha scritto sui Beatles come su Charles Parker, sui Pink Floyd di The Wall come sulla diaspora schiavistica nera in età rinascimentale e i suoi poco indagati riflessi nel teatro e nella musica in Italia, nel Nord Europa e nel Mediterraneo tutto. Adesso torna, per la serie Musica Contemporanea e i tipi di Mimesi Mogol-Battisti, e le circa quattrocento pagine originarie sono diventate ora 554. L’opus magnum su quella coppia magica e concreta assieme che approfondì, sconvolse, ribaltò, confermò il concetto stesso di «canzone» in Italia, con un’alchimia complessa e mai più ripetuta, nella Penisola, che forse può trovare confronto nella popular music globale solo con la coppia Lennon-McCartney. Nell’impossibilità di dar conto, in breve spazio, della profondità di analisi di Salvatore, segnaliamo qualche tratto di novità dell’imponente volume che, è il caso di dire, fa piazza pulita di decine di testi meramente encomiastici sulla celeberrima «coppia d’autore». Intanto una prefazione di Giulio Rapetti Mogol stesso, che valorizza la centratura di Salvatore nel ricostruire il suo percorso testuale per Battisti tra sensualità, spiritualità, afflato cosmico, sperimentazione linguistica; poi, in coda una clamorosa intervista di Salvatore a Pasquale Panella, sul post-Mogol: sembra di leggere Carmelo Bene che nega il suo essere attore mentre sta recitando.