Di che cosa è fatto un museo? Di collezioni, certo, di oggetti, di idee e di racconti, ma soprattutto di persone. Degli sguardi che queste persone – i curatori, il pubblico, il personale che abita quotidianamente le sue stanze, gli artisti, che spesso del museo sono chiamati a ridefinire i confini e i significati – esercitano sulle tracce, sui documenti e sulle opere che nel tempo uomini e donne hanno prodotto o selezionato. Materiali davvero eterogenei che per strade accidentate, a volte molto crudeli, sono infine giunti nelle vetrine o nei depositi (le riserve) del museo, trovando nuova luce o temporaneo occultamento, mostrandosi e nascondendosi agli sguardi.
Perché se il museo è uno «specchio colossale» nel quale, come ebbe a scrivere George Bataille nelle pagine della rivista «Document», «l’uomo si contempla finalmente sotto tutte le facce», proprio come ogni specchio il museo è un dispositivo che, innanzitutto, risponde, infedele, allo sguardo, uno sguardo che cerca di fermare un’immagine e, soprattutto, che vuole trovare conferma al proprio desiderio.
Non c’è alcuna innocenza in questo gioco di riflessi. Da sempre, infatti, il museo è un attore politico e sociale potente, una macchina tutt’altro che celibe, un’istituzione, in ogni caso pubblica in quanto per definizione aperta a tutti i pubblici, iperproduttiva di ideologie e di prospettive critiche, di visioni che, come hanno fatto ormai cinquant’anni fa gli artisti dell’Institutional critique, dobbiamo imparare a riconoscere e, quando necessario, a disinnescare, comunque a discutere.
In questa direzione si muove l’ultimo libro di Giulia Grechi, antropologa poco più che quarantenne molto attiva anche nella cura di progetti artistici ed espositivi. Decolonizzare il museo è il titolo del volume, un invito e un’azione (Grechi insiste su «decolonizzare come verbo») che il sottotitolo rende opportunamente meno trasparente: Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati (Mimesis Edizioni, s.i.p., e 24,00).
Al di là dell’infelice neologismo con il quale la studiosa, tra le fondatrici della rivista «roots§routes research on visual cultures», definisce «quel complesso insieme di pratiche attraverso le quali l’identità di un oggetto o di un soggetto mostrato viene definita tramite le modalità della sua esposizione», quello che appare chiaro fin dalle prime pagine di questo saggio decisamente «in prima persona», molto attento alle questioni di genere, è l’intento di mettere in movimento i pensieri e i corpi per svelare «le patologie della coscienza storica» (Ricoeur) che si nascondono in bella vista nelle teche dei musei etnografici, e non solo.
Utilizzando gli strumenti teorici proposti da James Clifford, noto in Italia soprattutto per le sue riflessioni su etnografia, letteratura e arte nel XX secolo (è tradotto da Bollati Boringhieri e da Meltemi), dall’antropologo Arjun Appadurai e dal filosofo Achille Mbembe, senza dimenticare la foucaultiana microfisica del potere e la teoria del ritratto di Nancy, Grechi costruisce un ragionato testo militante.
Un racconto critico intessuto di soggettività che non si occupa tanto di discutere la teoria postcoloniale e i suoi sviluppi teorici quanto di verificarne le possibili applicazioni nel corpo a corpo serrato con specifiche collezioni, musei, esposizioni.
Piuttosto che ripercorrere gli snodi critici e anche le polemiche che hanno nel corso degli ultimi decenni segnato il dibattito sugli studi postcoloniali, il libro offre quindi una serie di affondi su alcuni momenti significativi che hanno visto all’opera una prospettiva decolonizzante all’interno dei musei etnografici, musei che anche se cambiati di nome (non si contano più i musei «delle culture» o «delle civiltà») devono ancora fare sul serio i conti con il peccato originale della loro nascita, frutto nella maggior parte dei casi della brutale appropriazione di un patrimonio di oggetti di cui i paesi coloniali hanno deciso di «prendersi cura», arrogandosi un diritto oggi tutto da ridiscutere.
«Perché fino a poco tempo fa è parso tanto ovvio che gli oggetti non-occidentali dovessero essere conservati nei musei europei?». La domanda di Clifford è cruciale e Giulia Grechi la utilizza per affrontare la questione, davvero bruciante, delle restituzioni, tante volte invocate e altrettante volte eluse. Restituire gli oggetti sottratti con la forza e con l’inganno dai paesi colonizzanti – un esempio per tutti, la spedizione Dakar-Gibuti, di cui Michel Leiris ha scritto senza indulgenza nel «mostruoso» Afrique fantôme (di recente riproposto in Italia, nella sua versione integrale, da Quodlibet) – non significa però solo riportare i manufatti nelle terre e nelle culture d’origine, significa innanzitutto mettere in chiaro l’ideologia che li ha trasformati in materiali da collezione ed esposizione restituendo a quegli «esotici» oggetti cola storia e il valore d’uso che il museo ha loro sottratto e ridando in questo modo presenza alle persone che dietro quegli oggetti sono state troppo a lungo nascoste.
Questo l’intento dei numerosi interventi d’artista che l’autrice riporta nel libro, in cui confluiscono i racconti dei progetti di cui la stessa Grechi è stata curatrice e i resoconti di opere incontrate nelle rassegne internazionali (Documenta, Manifesta, la Biennale di Venezia). Attraverso un esercizio ecfrastico giocato tutto sull’empatia e, per questo, efficace nel tradurre in parola l’esperienza «senza cornice» delle installazioni, delle performance e delle opere firmate, tra gli altri, da Jimmie Durham, Maria Thereza Alvez, Kader Attia, Brett Bailey, Leone Contini, Lorna Simpson, Elisabetta Benassi, Studio Azzurro, e delle coreografie di MK e di Salvo Lombardo – Chiasma, l’autrice crea la sua personale collezione di opere che «rovesciano lo sguardo» sui musei etnografici, sugli archivi e, più complessivamente, sulla nostra relazione con l’Altro.
Opere che in modi diversi restituiscono al corpo, alla sua intelligenza, una centralità troppo spesso negata dal privilegio accordato nei musei a una fruizione disincarnata, una visione disciplinata e pura di cui già Duchamp, nelle sue mostre pieni di ostacoli e di tranelli percettivi, insegnò a diffidare.