L’Unione europea sta per uscire dalla recessione, ma la produzione è ancora al di sotto dei livelli del 2008 e la situazione è caratterizzata in molti paesi da elevata disoccupazione e dalla riduzione dei salari reali.

La fase acuta della crisi finanziaria è stata superata, ma il sistema finanziario resta molto fragile e le banche nel 2013 hanno ancora ridotto i prestiti.

Le politiche fiscali fortemente restrittive imposte a molti Stati membri ha reso ancora più difficile soddisfare gli obiettivi di contenimento del deficit. Mentre la Banca Centrale Europea ha stabilizzato le banche con circa 1.000 miliardi di euro di prestiti triennali in incondizionati, continua ad essere vietato il credito ai governi (…). I salari reali stanno registrando una contrazione in vari paesi, alimentando le pressioni deflazionistiche che dilagano in gran parte dell’Europa.

Piuttosto che ricorrere a maggiore austerità, le politiche dovrebbe concentrarsi sul sostegno all’occupazione per promuovere la crescita di posti di lavoro socialmente e ambientalmente desiderabili. L’impatto regressivo dei tagli alla spesa pubblica dovrebbe essere evitato e andrebbe rafforzata l’istruzione pubblica e la sanità. Andrebbero finanziari maggiori livelli di spesa invertendo la tendenza degli ultimi 20 anni di continui tagli delle imposte. Il bilancio europeo deve tendere al 5% del Pil della Ue in modo da avere un impatto significativo sulla produzione e sull’occupazione.

Il finanziamento dei disavanzi pubblici andrebbe mutualizzato attraverso l’emissione di obbligazioni in euro emesse dall’insieme dei paesi, in modo che la speculazione non possa concentrarsi sui paesi più deboli. L’attuale situazione del debito pubblico in diversi Stati membri non è sostenibile; il debito non può essere completamente rimborsato e andrebbe sottoposto ad un audit per determinare quali debiti sono legittimi e quali dovrebbero essere annullati.

La compressione dei salari andrebbe sostituita da una più diffusa contrattazione collettiva. Un aumento regolato dei salari può contribuire al superamento della debolezza della domanda interna in Europa, oltre a garantire una maggiore giustizia sociale. Al fine di combattere la disoccupazione e creare condizioni in cui la vita delle persone non siano dominati dal lavoro salariato, la settimana lavorativa normale andrebbe riportata verso le 30 ore senza perdita di retribuzione.

La politica sulla finanza. Cinque anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, la crisi finanziaria e bancaria dell’Ue non è ancora risolta. Nella maggior parte dei paesi dell’Unione, il sistema bancario si presenta ancora fragile, nonostante l’enorme liquidità fornita dalla Bce (…). Le istituzioni europee dovrebbero ridurre il peso della finanza nell’economia. Le attività speculative dovrebbero essere vietate. Le banche commerciali devono essere isolate dai mercati finanziari e dovrebbero concentrarsi sul proprio core business: il credito al settore non finanziario. La direttiva sulla Financial Transactions Tax proposta dalla Commissione deve essere rapidamente attuata. La Bce dovrebbe essere sottoposta ad un effettivo controllo democratico e dare priorità agli obiettivi sociali ed ecologici (…).

L’occupazione. La crisi ha avuto un impatto sociale profondamente regressivo. Nella Ue un quarto della popolazione è in condizioni di povertà e un ottavo della sua forza lavoro è disoccupata. I livelli di disoccupazione giovanile sono particolarmente inquietanti: per l’intera Ue è uno su quattro, mentre nei paesi del sud come Grecia, Spagna e Italia si sale a uno su due, o uno su tre. L’elevata disoccupazione e la povertà hanno indebolito la posizione negoziale della forza lavoro nei confronti dei datori di lavoro e questo si è riflesso in condizioni di lavoro più precarie: uno su cinque contratti nell’Unione europea sono a tempo determinato e i lavori a orario ridotto e a part-time involontario sono aumentati dall’inizio della crisi (…).

La politica industriale. L’urgenza di una politica industriale in Europa comincia ad essere riconosciuta dalla Commissione europea. Ma le sue proposte restano confinate al quadro ristretto delle politiche per la concorrenza. Si rende necessaria un’alternativa capace di collegare la performance industriale di lungo termine con una trasformazione sociale ed ecologica. Questo dovrebbe coinvolgere sei grandi dimensioni:

(1) a livello europeo, un piano di investimenti pubblici per la ricostruzione socio-ecologica al fine di stimolare la domanda europea, (2) una inversione di tendenza rispetto alla grave perdita di capacità industriale in Europa, (3) l’urgente riorientamento verso nuove attività ambientalmente sostenibili, ad alta intensità di conoscenza, con competenze e salari elevati, (4) il rovesciamento delle privatizzazioni degli ultimi decenni e un intervento pubblico a sostegno di nuove attività a livello comunitario, nazionale, regionale e locale; (5) l’impostazione di un diverso tipo di ‘sicurezza’ in termini di disarmo, di maggiore coesione e di minori squilibri all’interno dell’Ue e dei singoli paesi, e (6) la creazione di un nuovo importante strumento di politica per la trasformazione ecologica dell’Europa.

Le attività specifiche che potrebbero essere coinvolte da questa nuova politica industriale comprendono: (a) la tutela dell’ambiente e delle energie rinnovabili, (b) la produzione e la diffusione delle conoscenze, le applicazioni delle tecnologie dell’informazione e comunicaziond e le attività di web-based, (c) i servizi alla salute, al benessere e alle attività di cura, (d) il sostegno alle iniziative per dare soluzioni socialmente ed ecologicamente sostenibili sui temi dell’ alimentazione, mobilità, edilizia, energia, acqua e rifiuti.

Il progetto di accordo Usa-Europa su commercio e investimenti. Negli ultimi anni l’Unione europea ha negoziato numerosi accordi commerciali bilaterali. Nei primi mesi del 2013 l’Ue e gli Usa avevano deciso di avviare negoziati per un accordo commerciale bilaterale, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP).

L’accordo proposto non è destinato solo a ridurre le tariffe tra i due maggiori blocchi commerciali dell’economia mondiale, ma il suo scopo primario è quello di smantellare e/o armonizzare le normative in settori quali l’agricoltura, la sicurezza alimentare, gli standard tecnici dei prodotti, i servizi finanziari, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e gli appalti pubblici. Una questione centrale sarà la liberalizzazione e la protezione degli investimenti esteri. La Commissione europea, sulla base di studi prodotti, sostiene che l’accordo promuoverà la crescita e l’occupazione. Gli effetti economici del TTIP sono, tuttavia, insignificanti. I guadagni in termini di reddito sono stimati a meno dell’1% del Pil della Ue nel corso di un decennio. L’aumento dei costi in termini di disoccupazione e adattamento alla liberalizzazione del commercio sono sottovalutati o trascurati del tutto. La deregolamentazione prevista dall’accordo commerciale minaccia la salute pubblica, i diritti del lavoro e la tutela dei consumatori. La soluzione proposta per regolare le controversie tra investitori e stati privilegia i diritti degli investitori a scapito dell’autonomia della politica nazionale. Il TTIP non è altro che un attacco frontale al processo decisionale democratico nella Ue. Sono urgenti profonde revisioni nell’agenda dei negoziati. Al momento, è assai dubbio che l’accordo commerciale possa produrre benefici economici e sociali per i cittadini europei. Una valutazione dell’impatto globale attraverso dettagliati studi su molte questioni critiche e una rottura radicale con la mancanza di trasparenza che le caratterizza sono i primi passi essenziali per il necessario dibattito democratico sul TTIP.

*European Economists for an Alternative Economic Policy in Europe