Come d’incanto, è tornato alla ribalta il ministro dei rapporti con l’Europa Paolo Savona, che con poche parole estrapolate da un lungo intervgento («dobbiamo prepararci al peggio»), ha resuscitato suo malgrado il fantasma dell’uscita dall’euro. Tanto da costringere Luigi Di Maio a una nuova accorata smentita.

Il problema vero è che i primi a non essere tranquilli sono i grandi investitori internazionali. Il timore che circola nella comunità finanziaria europea è che i sovranisti di casa nostra, prima o poi, mettano sul tavolo «l’arma segreta» come strumento di pressione per ottenere finanziamenti da Bruxelles. Insomma la paura non è ancora passata e dunque il quesito rimane: che cosa accadrebbe se l’Italia uscisse dall’euro? Quali effetti avrebbe sull’occupazione e sul mercato del lavoro? La risposta dei soloni della finanza internazionale è unanime e inequivocabile: un effetto devastante, simile a quello della grande crisi del 1929, quando la caduta di Wall Street portò a un crollo degli investimenti e a una disoccupazione dilagante.

Anche i più ottimisti sanno che il primo macroscopico risultato di una uscita dall’euro sarebbe una potente quanto drammatica svalutazione della lira. Anzi un vero e proprio crollo. A cui farebbe seguito uno scenario da paura. Non sono quelli di Bruxelles a sostenere questa tesi ma una delle più importanti banche del mondo: l’Ubs, ovvero l’Unione delle banche svizzere.

In un rapporto di qualche anno fa che mantiene tutta la sua attualità e che potrebbe essere titolato «Perdete ogni speranza o voi che uscite» , gli analisti dell’Ubs sostenevano che a causa di una gigantesca fuga di capitali, la lira crollerebbe del 60 per cento. Una percentuale spaventosa se si pensa agli stipendi e alle pensioni o ancora più drammatica se si immagina che cosa costerebbero i mutui che milioni di italiani hanno contratto con il sistema bancario. La seconda vittima di questo ritorno al passato sarebbe, secondo gli analisti, lo Stato italiano. Se ci si sofferma sul fabbisogno dello Stato italiano e sui livelli iperbolici del nostro debito che ha toccato di recente i 2350 miliardi di euro, è facile intravedere la possibile bancarotta delle nostre istituzioni finanziarie. Lo Stato non sarebbe in grado di onorare i debiti verso i milioni di sottoscrittori di titoli pubblici, provocando così ondate di sfiducia e di panico dagli esiti incalcolabili. A quel punto il necessario blocco di capitali sarebbe inutile, sarebbe come arginare un fiume in piena con un’asticella.

I primi effetti shock dell’uscita dall’euro sarebbero dunque un’inflazione devastante e un’esplosione dei tassi di interesse. La fuga dai nostri titoli di Stato con la conseguente bancarotta del debito pubblico spingerebbe i tassi d’interesse, secondo le stime più ottimistiche dell’Ubs, nella stratosfera. Si calcolano ben 7 punti in più rispetto ai livelli attuali.
Non basta. L’altro grande terremoto sarebbe costituito dall’inflazione. Non c’è bisogno di essere un economista per sapere che la nostra bilancia commerciale è strutturalmente in passivo, l’economia italiana è dipendente dall’estero per le fonti energetiche come gas, petrolio e altre materie prime essenziali per il 60%. Qualcuno ricorderà lo shock petrolifero degli anni ’70 del secolo scorso quando l’inflazione toccò punte del 20% a causa proprio dell’aumento improvviso del prezzo del petrolio. Ecco, ci spiegano gli economisti, potrebbe succedere qualcosa di ancora più grave: un barile di petrolio ci costerebbe quattro o cinque volte quello che costa oggi per il semplice motivo che i produttori di petrolio, ad esempio, vorrebbero essere pagati in euro o in dollari e non in una moneta svalutata del 60%.

Dunque, l’inflazione, a livelli mai conosciuti, si abbatterebbe su salari e pensioni provocando disastri inauditi sull’economia reale: crollo degli investimenti, crollo dell’occupazione. L’impoverimento crescente diventerebbe realtà a causa di un processo assai rapido di disoccupazione di massa. A nulla servirebbe un congelamento del credito, ipotizzato dallo stesso studio della banca svizzera Ubs. Né la Bce potrebbe in alcun modo intervenire per salvare il salvabile come auspicato da Paolo Savona nella sua audizione di martedì in parlamento.

L’abbandono dell’euro, conclude lo scenario, costerebbe a ogni cittadino italiano inizialmente tra 9.500-11.500 euro all’anno. Passata l’emergenza, il costo rimarrebbe comunque alto, tra 3-4000 euro all’anno ma del paese ne resterebbero soltanto le macerie, perché a quel punto l’Italia vivrebbe un isolamento politico e finanziario difficilmente recuperabile.