A Paris Photo, l’editoria di fotografia ha sempre uno spazio importante e quella giapponese, in particolare, è una presenza consolidata. Quest’anno per il PhotoBook of the Year del Paris Photo-Aperure Foundation Photobook Awards (vinto dalla brasiliana Rosângela Rennó) nella lista dei dieci titoli dell’anno ben due sono della casa editrice AKAAKA di Tokyo: Rasen Kaigan di Lieko Shuga e Surrendered Myself to the Chair of Life di Jin Ohashi.
Inoltre, nella mostra The Protest Photobook 1956-2013, curata da Martin Parr al Grand Palais, tra i libri della collezione del fotografo inglese figuravano anche Okinawa, Okinawa, Okinawa (1969) di Shomei Tomatsu, Teikoh/Resistance (1965) di Kazuo Kitai e dello stesso autore Sanrizuka 1969-71 (1971).
Una protesta urlata che riguardava vari aspetti della società, inclusa la nuclearizzazione del paese. Quarant’anni dopo si continua a protestare, ma in maniera diversa, come vediamo nell’ultimo libro di Tomoki Imai (Hiroshima 1974, vive e lavora a Tokyo), Semicircle Law (Match and Company 2013). Imai, autore di Mahiru – in the middle of the day (2001), Light and Gravity (2009) e A Tree of Night (2010) a partire dal 21 aprile 2011 e fino al termine del 2012 ha fotografato il paesaggio che circonda l’impianto nucleare di Fukushima. Un’area off-limits che il governo giapponese dichiara «zona da evacuare» a causa delle radiazioni del post tsunami. Tomoki Imai fotografa per non dimenticare la tragedia, nel tentativo di rendere visibile ciò che non lo è.

Lei ha iniziato a fotografare il giorno prima che il governo proibisse l’accesso all’area di Fukushima…

Inizialmente, non volevo fotografare il disastro dello tsunami, ma quando ho capito che il problema era molto serio, ho deciso di occuparmene, tanto più che l’area interessata dalle radiazioni è molto vasta. Dato che non è possibile fotografare le radiazioni (né vedere i loro effetti immediati), è come essere ciechi. Tuttavia, è evidente il punto centrale da dove è partito tutto questo, la centrale nucleare. Così, ho pensato di indicare fisicamente questo luogo nel mio lavoro fotografando dall’alto delle montagne la natura che lo circonda, lungo un raggio di 20 chilometri. La prima foto è stata scattata il giorno prima che il governo proibisse l’accesso alla zona, la centrale è lontana avvolta nel fumo e nella nebbia. L’ho ripresa ad una distanza di 18 chilometri. Questa zona appare come un qualunque paesaggio di montagna, ma in realtà è totalmente contaminata. All’epoca non sapevo ancora la gravità della situazione, se il disastro fosse finito o progredisse. Volevo semplicemente continuare a fotografare nelle diverse stagioni. Primavera, estate, autunno, inverno… le stagioni cambiavano e così i colori delle foglie degli alberi, ma anche le radiazioni nucleari andavano avanti, senza manifestare apertamente la loro presenza. Fotografare la natura è una metafora per mostrare come le conseguenze dei danni del disastro siano invisibili, ma non si fermano.

In «Semicircle Law», lei ha lavorato fino alla fine del 2012. Lo considera un progetto concluso?

No, continuo a fotografare perché ho intenzione di realizzare un nuovo libro, perché la gente in Giappone non dimentichi il disastro. In questa zona non vivono molte persone, ma da quando è stato proibito abitare nell’area dove è avvenuto l’incidente, è come una città di spiriti.

L’essere nato a Hiroshima l’ha forse resa più sensibile all’argomento?

Onestamente, non credo che ci sia una connessione tra questo lavoro e la storia della mia città, ma forse nel profondo mi sento vicino a una tematica così profonda.

Non hai mai avuto paura di essere così vicino alla zona radioattiva?

Sì, naturalmente ho avuto paura delle conseguenze delle radiazioni. Ma poi ho capito i diversi livelli della radioattività, sia quelli che potevano veramente essere nocivi sia quelli nei limiti. Va considerato anche che non mi trovavo lì ogni giorno.

In Giappone c’è stata una scarsa informazione sui danni reali delle radiazioni. Qual è stata la sua posizione?

Ero arrabbiato e volevo capire come fosse potuto succedere, così ho cominciato gradualmente a informarmi. Ma è una storia piuttosto complessa, perché in Giappone c’è chi si batte per la denuclearizzazione, ma anche chi è favorevole alle centrali, perché dipende dall’energia nucleare. I giapponesi tendono a dimenticare facilmente disastri come quello di Fukushima. Il mio messaggio è di non far cadere nell’oblio una catastrofe che non si ferma.