Mancano ancora tre anni alle Olimpiadi di Tokyo, ma già l’evento si sta facendo sentire nell’arcipelago, oltre agli scandali del logo, dello stadio ed agli imponenti costi per la manifestazione sportiva più grande del pianeta, sono il paesaggio ed il territorio i luoghi dove più le mutazioni si faranno probabilmente sentire. Era già successo per l’edizione dei giochi di Tokyo del 1964, quando la manifestazione coincideva con il processo di industrializzazione, anche selvaggio, che avrebbe portato il paese definitivamente fuori dal periodo della ricostruzione post-bellica ed avrebbe cambiato il paesaggio del paese per sempre.
L’interesse delle arti visive e del cinema in particolare verso il paesaggio origina praticamente con gli inizi della settima arte, ma nel caso giapponese è verso la fine degli anni sessanta che subisce un netto salto qualitativo e politico, quasi una rottura. Nel 1969 viene portato a termine A.K.A Serial Killer di Masao Adachi, anche se uscirà solo più tardi, e l’anno sucessivo Nagisa Oshima realizza The Man Who Left His Will on Film, due lavori sperimentali che entrambi, in modo molto diverso, attaccano il paesaggio, sia quello «reale» che quello codificato da mass media, come espressione massima dei meccanismi di potere.

Il primo lavoro è una sequenza di immagini di paesaggi che il giovane Norio Nagayama ha probabilmente visto e abitato nel corso dei suoi 19 anni di vita prima di essere arestato per due omicidi compiuti nel 1968, mentre il secondo è un film dove i paesaggi filmati da un giovane attivista-regista creano un cortocircuito e una mise en abyme fra immagine, proteste politiche, spettacolarizzazione e paesaggio, uno dei migliori lavori di Oshima. Questi due film più una serie di scritti teorici da parte di Masao Matsuda, con il prezioso aiuto di Mamoru Sasaki, fanno nascere di fatto il fukeiron, la teoria del paesaggio, dove l’insistere quasi ipnotico su paesaggi onodini e a prima vista privi di importanza criticano, come detto, i micropoteri che danno forma alla vita quotidiana, ma allo stesso tempo anticipano un’estetica liberatoria e basata sulla materialità delle cose che sarebbe fiorita in seguito con artisti quali Chantal Akerman ed i documentari sperimentali del Sensory Ethnography Lab. La teoria del paesaggio avrebbe dato vita o ispirato, più o meno direttamente, qualche altro lavoro, First Emperor di Masato Hara nel 1973 ed un anno dopo Okinawan Dream Show di Takamine Go, ma la sua influenza rimane ancora oggi molto forte in alcuni ambiti artistici.

Eric Baudelaire con il suo The Anabasis of May e Fusako Shigenobu, Masao Adachi and 27 Years without Images del 2011 ad esempio, ricalca volutamente le poetiche del fukeiron ed un certo interesse per l’estetica del paesaggio sembra essere stata rivitalizzata dalla tragedia del terremoto/tsunami/disastro nucleare del marzo 2011. In molti dei migliori documentari dedicati ai fatti che hanno sconvolto l’arcipelago sei anni fa infatti, il paesaggio di rovine e quasi irreale del dopo tsunami è il vero e proprio protagonista delle pellicole. Sia quando viene messo in un contesto che fa risaltare il nostro voyeurismo verso lo spettacolo della distruzione, No Man’s Zone di Toshi Fujiwara per esempio, sia quando il paesaggio diviene il protagonista, in assenza.È questo il caso del bel Fukushima: Memories of the Lost Landscape di Yoju Matsubayashi ma anche del recente Close but Distant di Yui Okubo, lavoro attualmente in alcune sale dell’arcipelago dove la perdita dei paesaggi è accomunata ad una vera e propria perdita della memoria.

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