Non sarà Renzi a dire ai ricercatori italiani di restare in Italia. «Siamo pieni di presidenti del Consiglio che in passato hanno detto non andate» ha detto ieri l’inquilino di Palazzo Chigi all’istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) del Gran Sasso. «Se pensate che sia meglio, fatelo. Ma noi faremo dei nostri istituti i luoghi al top del livello mondiale – ha proseguito – faremo dell’Italia un centro capace di attrarre ricercatori italiani e di tutto il mondo». E poi, come rivolgendosi a diplomati preoccupati di lasciare casa per andare all’estero, ha detto: «è giusto fare esperienza all’estero, non bisogna continuare ad avere paura del mondo senza frontiere ma far sì che i nostri istituti siano all’avanguardia».

Il messaggio ai ricercatori non è stato dei più felici: comunica nervosismo e un senso di rivalsa contro le recenti polemiche scatenate dalla volontà del ministro dell’università Giannini di appropriarsi del merito di una super-borsa dello European Research Council (Erc) da due milioni di euro vinta dalla ricercatrice italiana, la linguista Roberta D’Alessandro…in Olanda. Erroneamente inquadrata nella retorica vittimistica della «fuga dei cervelli», lo scontro Giannini-D’Alessandro è avvenuto sulla mancanza di politiche della ricerca in Italia. La ricercatrice ha precisato di non fuggire da nulla: ha fatto un dottorato all’estero e lì continua a fare ricerca, indipendentemente dal passaporto. In Italia il problema non sono solo i concorsi pilotati o le baronie, ma l’inesistente attrattività dei ricercatori stranieri, senza contare che sui 30 vincitori italiani dell’Erc, solo 13 si fermeranno in Italia per realizzarlo. E, al termine, non è detto che tutti continueranno a lavorare nel nostro paese.

A questo si aggiungano i tagli al fondo degli atenei da un miliardo, la miseria di 92 milioni di euro destinati alla ricerca di base del Prin per tre anni o il blocco degli stipendi da cinque per capire le ragioni per cui si lascia una nave che affonda e non si vuole annegare da precari. La rimozione di questa realtà ieri ha ravvivato le critiche online della comunità accademica che intende astenersi dalla valutazione della qualità della ricerca (VqR).

Il problema del presidente del Consiglio è l’immagine internazionale del paese. «C’è un racconto per il quale l’Italia è soltanto crisi, con grandi elogi per chi va all’estero visto che in Italia non ci sono Istituti all’altezza – ha detto – Io dico che è giusto andare all’estero, ma è molto manicheo dire che all’estero tutto va bene e in Italia no». «Bisogna sfatare la leggenda dei cervelli all’estero – ha rilanciato da Roma il ministro dell’università Giannini – Ci sono difficoltà di attrattività del sistema e su questo stiamo lavorando».

Resta da capire che cosa il governo stia facendo per la ricerca, oltre ai 60 milioni promessi all’Infn. Ieri Giannini ha rilanciato il «piano nazionale per la ricerca» (PnR): 2,5 miliardi di fondi nazionali e dieci fino al 2020. Si direbbe, tutto bene. In realtà le cose non sono messe benissimo. Annunciato un anno fa, il PnR è una scommessa che punta a prendere 8,8 miliardi dal programma Ue Horizon, 2,2 dai Por regionali, il resto va conquistato con i progetti sui quali l’Italia ha dato pessima prova di sé. Questi soldi andranno alle aree Agrifood, Aerospazio, Design Creatività, Made in Italy, Chimica Verde o «Smart Communities», energia, mobilità e trasporti. Settori con immediata ricaduta industriale, non ricerca di base, e tanto meno umanistica.

All’università, briciole: solo un bando per 863 ricercatori, mentre dal 2008 è stato perso un quinto dei docenti di tutte le fasce e la ripartizione delle risorse residue penalizza gli atenei del Sud. Se la narrativa sulla «fuga dei cervelli» è vagamente nazionalista, questo è un modo per alimentarla, aggravando le disparità tra atenei e il loro sotto-finanziamento. Il «top» è lontano e non è per tutti.