Quello di Ian Tattersall è un viaggio a ritroso nel tempo, alla scoperta delle capacità che hanno segnato in modo singolare gli albori dell’umanità: lo ha compiuto in lavori importanti come La scimmia allo specchio, o Il cammino dell’uomo. Perché siamo diversi dagli altri animali, il cui fine è raccontare la storia del grande albero della vita in cui la specie umana sembra occupare un posto privilegiato.

Avvalendosi degli strumenti propri dell’indagine scientifica – in particolare, le evidenze tratte dalla documentazione fossile – Tattersall, illustre paleoantropologo e direttore della Hall of Human Evolution dell’American Museum of Natural History di New York, ha contribuito ad aggiungere nuovi tasselli al grande puzzle dell’evoluzione umana. Al centro delle sue tesi sta la convinzione che la comparsa dei tratti che ci hanno reso unicamente umani – tra tutti, l’intelligenza simbolica – piuttosto che il prodotto di lente e graduali modificazioni, sia frutto di una serie di inattesi «balzi» evolutivi. A questa apparente rottura nell’ordine naturale non corrisponde, secondo Tattersall, un salto ontologico che sottrarrebbe all’essere umano la sua partecipazione alla natura animale.

Tuttavia, raccontare la realtà attraverso simboli e immaginare infiniti mondi possibili è una abilità creativa sconosciuta a qualunque altra specie. Comprendere chi siamo significa, dunque, sondare da vicino ciò che ha reso possibile una mente tanto singolare. In questa intervista, Ian Tattersall ripercorre le principali tappe del suo pensiero scientifico, mettendo in luce l’importante apporto della paleoantropologia nello studio dei fattori che hanno contribuito all’evoluzione della natura umana.

Le sue ricerche riguardano l’antropologia e la paleontologia con una lente particolarmente concentrata sull’evoluzione ominide. È una chiave di lettura importante soprattutto perché implica il fatto di definire ciò che contraddistingue la natura umana. Qual è il metodo di indagine e quale l’effettivo contributo della paleoantropologia nello studio di ciò che ci ha reso umani, e come siamo arrivati a sapere ciò che finora sappiamo sul cammino che ha condotto all’umanità?

Dal punto di vista della paleoantropologia, la questione di chi siamo e del posto che occupiamo all’interno della natura può essere affrontata in modi molteplici. Un primo importante orientamento è stato quello dell’anatomia comparata, che nel XVII e nel XVIII secolo ha definitivamente dimostrato lo stretto legame esistente dal punto di vista strutturale tra la nostra specie e le grandi scimmie. La formulazione del concetto di evoluzione ha poi permesso di elaborare una interpretazione dei reperti fossili disponibili; grazie a questo, comprendere e valutare con esattezza il processo responsabile della differenziazione tra la nostra linea di discendenza e quella delle specie evolutivamente più vicine a noi è diventata un’operazione possibile. Attualmente, è soprattutto la comparazione di interi genomi a restituirci un’immagine formidabilmente precisa dello scenario in cui Homo sapiens ha trovato collocazione nell’enorme e complesso Albero della Vita, insieme a milioni di altre specie.

Negli ultimi anni gli studi comparativi hanno evidenziato come molti tratti ritenuti prerogativa della nostra specie – per esempio il senso di equità e l’empatia – siano, in realtà, condivisi in qualche grado con altre specie animali. Tuttavia lei ha spesso affermato che quanto c’è di interessante per noi va rintracciato sul piano delle differenze. Non a caso, molti suoi lavori esaminano le condizioni e le caratteristiche che ci rendono unici rispetto al resto del mondo vivente: come potremmo sintetizzarle?
Non c’è dubbio, la maggior parte delle proprietà che ci definiscono – dal piano anatomico, molecolare a quello comportamentale – è condivisa con i nostri parenti più prossimi e molte altre specie hanno mostrato di saper fare cose che un tempo consideravamo unicamente umane: possiamo darlo per assodato. E, certamente, l’idea che siamo parte della natura e da questa abbiamo avuto origine ha profonde implicazioni nella definizione di chi siamo. Tuttavia, per comprendere ciò che realmente rende Homo sapiens l’eccezionale essere che è dobbiamo guardare agli aspetti che lo distinguono. Ora, noi siamo, senza ombra di dubbio, insoliti dal punto di vista anatomico, principalmente per via di quella bizzarra forma di locomozione che è il bipedismo. Ma a renderci realmente differenti – e a farci sentire tali – è il modo in cui elaboriamo informazioni nella nostra mente: tutti i pensieri di cui siamo capaci sono un esempio di questa straordinaria abilità. A distinguerci in modo peculiare dagli altri animali è esattamente il modo in cui pensiamo.

Diverse evidenze suggeriscono la presenza di tracce di Dna di Neanderthal nel genoma degli esseri umani moderni. A partire da queste evidenze, è secondo lei plausibile ipotizzare un incrocio tra la specie Neanderthal e quella Homo Sapiens?

Non tutti ritengono che sia indispensabile chiamare in causa l’ibridazione per spiegare le tracce di Neanderthal presenti nel genoma umano. Tuttavia, la nostra specie, dopo essersi originata in Africa, si è diffusa nei luoghi più remoti del pianeta. Lo scambio di geni tra specie diverse a noi molto affini è un processo che avviene regolarmente, e sembra piuttosto implausibile che, una volta diffusasi, la specie umana non si sia occasionalmente incrociata con i suoi parenti ancestrali. Detto ciò, la questione più rilevante è che qualunque contatto ci sia stato non ha evidentemente interessato le successive traiettorie evolutive della nostra specie né quelle dei nostri parenti estinti.

I ritrovamenti fossili hanno permesso di ridefinire la nostra evoluzione nei termini di un groviglio di specie (la celebre immagine del corallo), alcune delle quali estinte mentre altre generatrici di altre specie. Eppure, il classico modello lineare contro cui ha combattuto tenacemente Stephen Jay Gould, quello di una salita progressiva verso la perfezione, di cui noi saremmo i massimi rappresentanti, continua a prevalere nella visione del senso comune. Secondo lei, per quale ragione?

A mio avviso, siamo profondamente ingannati dal fatto di essere l’unica specie di ominidi attualmente sopravvissuta. Se osserviamo noi stessi come separati da tutto il resto, appare naturale proiettare la storia di Homo sapiens lungo una linea retta verso il passato. Ma proviamo a porre la nostra specie nel giusto contesto, e il quadro apparirà radicalmente diverso. Fino a tempi molto recenti, nello stesso momento coesistevano numerose specie di ominidi; questo di per sé rende evidente che non rappresentiamo la cima di un albero ma soltanto uno dei molti ramoscelli finali di un cespuglio intricato.

Ripercorrendo alcuni suoi lavori, si direbbe che la sua idea in merito a un tema scottante, quello delle origini del linguaggio, sia rimasta invariata nel corso degli anni. Di recente, nel corso di una conferenza dedicata a questo tema, lei ha ribadito la specialità del pensiero simbolico e del linguaggio umani e ha preso posizione all’interno di un dibattito molto acceso sulle capacità comunicative dei Neanderthal, criticando l’ipotesi che possano aver comunicato usando un linguaggio complesso. Dal punto di vista della paleoantropologia, cosa sappiamo finora dell’evoluzione del linguaggio?

Ciò che distingue e definisce l’essere umano è la specifica modalità simbolica della sua cognizione. Nonostante l’indubbia complessità da cui erano caratterizzati i Neanderthal, abbiamo poche evidenze fossili che permettano di affermare che fosse una specie dotata di un registro simbolico funzionante come tale. Se questa conclusione è corretta, non si vede come sia possibile sostenere che i Neanderthal possedessero un linguaggio comparabile a quello di cui è provvisto Homo sapiens – nonostante sia possibile suggerire che usassero una comunicazione vocale abbastanza sofisticata.

Nel «Cammino dell’Uomo», ma anche nel più recente «I signori del pianeta», lei ha affermato che la comparsa del pieno potenziale simbolico tipico della nostra specie è stato innescato da quello stimolo culturale che è l’invenzione del linguaggio. Quali eventi significativi hanno prodotto questi cambiamenti segnando una fase importante della nostra storia evolutiva?

Ritengo che l’acquisizione della moderna morfologia attraverso cui identifichiamo la specie Homo sapiens abbia rappresentato l’evento determinante. Questo evento ha interessato la struttura ossea, l’unica a essersi preservata nei processi di fossilizzazione, ma probabilmente le conseguenze si sono riflesse anche sul piano dell’organizzazione cerebrale. È stato poi necessario che questa struttura morfologica venisse reclutata dal punto di vista comportamentale nella nuova modalità cognitiva: l’elemento verosimilmente coinvolto in questo processo è stata l’invenzione naturale e spontanea di un linguaggio esternalizzato.

Per spiegare le origini del linguaggio lei sostiene che non è stato tanto un fattore dell’adattamento, quanto il risultato della cooptazione di vecchie strutture indirizzate a nuove finalità, un processo definito «exaptation»: attraverso questa ipotesi, lei sembra appoggiare una idea culturalista, che ha forti punti di contatto con il pensiero di Chomsky, con il quale lei ha recentemente firmato un articolo. In che modo una simile ipotesi è compatibile con l’idea che il linguaggio sia il prodotto della selezione naturale?

La mia idea è che la selezione naturale, piuttosto che una spinta al cambiamento, rappresenti più semplicemente un fattore di stabilizzazione all’interno di una popolazione. Inizialmente i cambiamenti sono casuali e la maggior parte di questi viene spazzata via dalla selezione – quindi, da una forza stabilizzante. Affinché una mutazione si riveli vantaggiosa, dovrà essere favorita da circostanze esterne che, anch’esse, sono molto probabilmente casuali rispetto alla possibilità di dar luogo a un adattamento. È in questo senso che il linguaggio può essere definito un «exaptation».

Recentemente, su «Nature» è stato ridefinito il dibattito tra «riformisti», convinti che la teoria dell’evoluzione necessiti di un ripensamento urgente, e «conservatori», soddisfatti della teoria classica. Il pomo della discordia è rappresentato dal tema del riduzionismo genetico e dalla necessità o meno di includerne la portata all’interno dell’eredità darwiniana. Lei che ne pensa?

L’intuizione principale di Darwin – l’idea che l’evoluzione sia «discendenza con modificazioni» – rimane solida. Un dibattito attuale degno di nota deve essere centrato sulla questione del grado di implicazione della selezione naturale nei processi di cambiamento evolutivo. Chiaramente, la selezione non è l’unico agente del cambiamento; e la complessità effettiva del processo necessita di ulteriori spiegazioni e di essere incorporata all’interno della teoria dell’evoluzione.

Insieme a Rob DeSalle lei ha contribuito a sfatare un mito duro a morire: il concetto di razza, impiegato a vario titolo nella storia dell’umanità per giustificare o legittimare le più grandi atrocità. Dal punto di vista scientifico, non esistono variazioni all’interno della nostra specie tali da convalidare l’esistenza di razze umane, lei dice. Può spiegarci perché?

Il concetto di «razza» come quello di «tipo» è un costrutto puramente sociale. Che ci sia variabilità tra le popolazioni umane è un dato di fatto; ma il compito di tracciare delle linee nette tra queste variabili appare impossibile. Uno scenario plausibile deve essersi presentato così: quando si dispersero fuori dall’Africa, i primi esseri umani costituivano un numero abbastanza sparuto; le popolazioni locali in isolamento svilupparono delle peculiarità proprie – un fenomeno del tutto ordinario. Ma una volta che lo stile di vita sedentario si stabilizzò, le varie popolazioni cominciarono ad aumentare di numero e, a questo punto, rientrarono in contatto e si accoppiarono. Infatti, al di là di tutte le variazioni di superficie, Homo sapiens rimane una singola especie. Qualsiasi barriera delineata all’interno della specie andò via via indebolendosi, un processo che tuttora procede rapidamente.