Ci si aspettava, ieri nella vicecapitale d’Europa, di dover commentare l’exploit di Florian Philippot, l’eterodosso numero due del Front National (dichiaratamente gay in un partito omofobo, antieuropeo e sfrontato al punto da non esitare a complimentarsi con Syriza per la vittoria dell’estrema sinistra alle elezioni greche dello scorso gennaio, molto vicino alla leader Marine Le Pen ma agli antipodi, politicamente, rispetto a Marion Marechal Le Pen).

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Jean Pierre Masseret

Invece, tutti a parlare del gran rifiuto di Jean Pierre Masseret. Il candidato del Partito socialista, uscito tritato dalla competizione elettorale (è arrivato terzo, con appena il 16% dei voti, dietro Philippot che ha preso il 36% dei consensi e pure dopo il candidato dei Repubblicani Philippe Richert, al 26%), ha affossato i già difficili tentativi di un fronte repubblicano per arginare l’onda nera, annunciando che non si farà da parte al secondo turno.

Il risultato è che la mega-regione Alsazia-Ardenne-Champagne-Lorena è quella che ha la più alta probabilità di passare al Front National, domenica prossima. Il premier francese Manuel Valls ha inviato al collega di partito un sms invitandolo a evitare l’«errore» di presentarsi: «Non puoi pensare di avere ragione contro tutti». Ma il socialista dissidente ha convocato una conferenza stampa per spiegare le ragioni della sua «difficilissima» scelta: «Quella del fronte repubblicano non è una strategia vincente. Non è la prima volta che la proponiamo e ogni volta il Fn ha continuato ad aumentare i consensi. Invece di ritirarci, dobbiamo affrontarlo».

L’impressione è che la decisione di Masseret sia la punta dell’iceberg di una sofferenza profonda all’interno della tramortita galassia socialista: penalizzati dal non essere riusciti a invertire la rotta dell’austerità europea, accusati dalla base di non aver fatto politiche di sinistra, in tanti ora hanno la tentazione di non seguire più il partito. Un sentimento esemplificato dalle dichiarazioni di un alto funzionario europeo al quotidiano Libération: «Per la prima volta disobbedirò a un’ingiunzione del Partito socialista. Posso essere un po’ sciocco, ma voglio votare per un partito di sinistra e non per un candidato dell’estrema destra».

A gioire è Florian Philippot, il 34enne figlio di insegnanti di Lille diplomato all’Ena (la scuola della pubblica amministrazione) dopo aver studiato nella prestigiosa università di Sciences Po e divenuto noto al grande pubblico come stratega della campagna elettorale di Marine Le Pen nel 2011. L’ambizioso «enarca» passato attraverso l’Ump di Sarkozy e il Movimento dei cittadini dell’ex ministro socialista ed euroscettico Jean Pierre Chévenement si candida a simbolo del superamento del vecchio Front National di papà Jean Marie Le Pen (che non avrebbe mai votato, ha sempre fatto sapere) su basi nazionaliste e repubblicane, e ora si appresta a governare la vicecapitale delle istituzioni europee.

È lui il simbolo del nuovo corso di Marine Le Pen, che mira a rompere le barriere storiche tra le due destre d’oltralpe, l’una figlia del regime di Vichy e l’altra della Resistenza. Non a caso, ha sempre affermato di ispirarsi politicamente a Charles de Gaulle, mentre l’anziano Le Pen, espulso dal partito da lui fondato, ancora ieri giocava a far sfoggio di antisemitismo.

Ieri, a margine dei festeggiamenti per la vittoria al primo round («un voto d’amore, d’adesione e di convinzione», l’ha definito) in una regione nella quale era stato paracadutato dal partito contro la sua volontà (avrebbe preferito candidarsi nel suo Nord-Pas-de-Calais), dopo aver fatto appello ad amplificare la «dinamica patriottica» Philippot ha avuto il tempo per parlare persino di Matteo Salvini, «il nostro grande alleato in Italia: condividiamo la grande lotta per il ritorno della sovranità nazionale, contro l’immigrazione e contro l’Unione europea», ha dichiarato all’Ansa, lasciando intendere come la strategia del Fronte Nazionale non si limiti a subentrare a François Hollande all’Eliseo, tra un anno. L’obiettivo è anche quello di catalizzare i fermenti identitari, le paure generate dalla guerra e dal terrorismo, la voglia di chiusura e i mal di pancia contro l’immigrazione e la globalizzazione che agitano il ventre del vecchio continente.