Nel momento in cui la sopravvivenza della cultura ebraica nel cuore dell’Europa viene minacciata al massimo grado, prende forma, proprio in Germania, un grande progetto letterario, culturale e politico che programmaticamente si oppone al tentativo di annientarla. La tetralogia biblica di Thomas Mann Giuseppe e i suoi fratelli, che impegna l’autore per ben sedici anni, dal 1926 al 1942, è un monumento all’identità ebraica e al contempo il tentativo, inedito e affascinante, di riscrivere in chiave moderna il mito di Giuseppe, narrato nel Genesi, attraverso le categorie proprie alla psicologia del profondo. Solo i primi due dei quattro volumi (Le storie di Giacobbe, Il giovane Giuseppe, Giuseppe in Egitto e Giuseppe il nutritore) possono ancora essere pubblicati in Germania, il terzo esce a Vienna e il quarto a Stoccolma, seguendo così le varie tappe dell’esilio cui la celebre casa editrice fondata da Samuel Fischer è costretta.

I lavori preparatori per questo opus magnum sono ingenti e abbracciano gli ambiti delle scienze bibliche, dell’orientalistica, dell’archeologia, della storia antica, dei miti e delle religioni, riversandosi sull’ambientazione e sui dettagli relativi al contesto storico e culturale. Tuttavia, le figure – per esempio quelle di  Giacobbe, Rachele, Giuseppe, i fratelli invidiosi, Mut-em-enet moglie di Potifarre – non corrispondono alla logica dei miti, che com’è noto escludono l’individualizzazione psicologica, e  vengono dotate da Thomas Mann di una profondamente umana individualità. Tutte le complesse vicende interpersonali figurano come elementi di un’unica grande narrazione che ritrae, in una prospettiva freudiana, le costellazioni familiari e i relativi processi psichici.

Tra gli innumerevoli estimatori di questo «romanzo familiare» c’è Sigmund Freud, al quale Thomas Mann fa visita a Vienna, una prima volta nel 1932 (altre due visite seguiranno nel 1936 in occasione del suo ottantesimo compleanno), quando il primo volume del suo romanzo non è ancora pubblicato. È  molto probabile, tuttavia, che la loro conversazione abbia toccato le figure dei patriarchi veterotestamentari, poiché Giuseppe è una delle due figure bibliche centrali per Freud. L’altra figura, in misura indubbiamente maggiore, è Mosè che il fondatore della psicoanalisi tenta ripetutamente di avvicinare con la scrittura. Profondamente affascinato dalla raffigurazione scultore, nel 1914 Freud dedica a Il Mosè di Michelangelo un saggio, frutto della sua frequentazione quotidiana di San Pietro in Vincoli durante un soggiorno romano nell’anno precedente. È un momento particolarmente difficile, in cui si consuma la rottura con Jung, ritenuto da Freud una prima vera minaccia per la psicoanalisi.

La figura biblica quale modello di identificazione in tempi caratterizzati da angoscia e pericoli, riemerge esattamente vent’anni dopo, quando nel 1934, sotto la duplice minaccia esistenziale del nazionalsocialismo e della malattia, Freud scrive un lungo saggio su Mosè, che tuttavia decide di non pubblicare. Tornerà sul tema fra il  1937 e l’anno seguente, quando nel momento più drammatico della sua vita, gravemente malato, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazionalsocialista, Freud è costretto a riparare a Londra, dove muore l’anno successivo. Nell’esilio inglese porta a termine, quasi fosse una sorta di testamento, L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Tre saggi, che pubblica presso Allert De Lange ad Amsterdam, importante punto di riferimento editoriale per gli autori tedeschi costretti all’emigrazione. Negli anni in cui attendeva al suo Mosè, Freud ha accennato a più riprese al carattere quasi persecutorio e ossessivo del proprio confronto con il fondatore del monoteismo ebraico: «L’uomo mi perseguita ininterrottamente», scrive il 16 dicembre 1934 a Arnold Zweig, principale interlocutore del suo progetto; e in una lettera a Lou Andreas-Salomé di poche settimane più tardi (6 gennaio 1935) ribadisce il fatto che Mosè l’ha «perseguitato per tutta la vita». Fin dalla struttura del libro è evidente quanto la sua genesi sia stata faticosa e complicata: i primi due saggi, di breve lunghezza, erano già apparsi nel 1937 sulla rivista «Imago», il terzo sproporzionalmente lungo viene pubblicato per la prima volta nel 1938 come ultima parte.

La scrittura è discontinua, piena di indugi, ripetizioni e ricapitolazioni, insicurezze stilistiche insolite per un autore che aveva vinto il premio Goethe, riconducibili all’incertezza circa l’effettiva validità scientifica del lavoro e l’opportunità di una sua circolazione. Freud vi intravedeva, infatti,  il rischio di urtare la sensibilità della Chiesa cattolica viennese, considerata fino all’annessione dell’Austria alla Germania come l’unica forza in grado di contrapporsi al nazionalsocialismo. Lo stretto collegamento delle sue riflessioni e teorie sull’identità di Mosè con il contesto storico-politico viene formulato esplicitamente ancora una volta in una lettera a Arnold Zweig del 30 settembre 1934: «Di fronte alle nuove persecuzioni vien da chiedersi nuovamente come si sia creato l’ebreo e per quale motivo si sia attirato questo odio immortale. Ho trovato presto la formula: Mosè ha creato l’ebreo». Una «formula» dalle implicazioni profonde, che riguarda il tema dell’elezione quale elemento portante del monoteismo ebraico, e che ha alle spalle la considerazione per cui  Mosè non era ebreo, bensì egizio, ed era un seguace del faraone Amenofi IV, poi divenuto Ekhnaton, fondatore di una nuova religione monoteistica, centrata sul culto del dio Aton rappresentato attraverso il disco solare.

Dopo la morte di Ekhnaton, le pratiche religiose tradizionali erano state gradualmente restaurate, e il ricordo del fondatore della nuova religione solare venne rimosso. Fu dunque per salvare il monoteismo dall’oblio che Mosè elesse quale popolo cui trasmetterlo quello ebraico in Egitto. Ma anche gli ebrei, come gli egizi, decisero di liberarsi di quella religione imposta, che veniva percepita come troppo complessa in quanto puramente spirituale: uccisero dunque Mosè. E la loro collettività dimenticò ciò che, con ogni evidenza, riaffiora nel teorema dell’uccisione del padre primordiale, elaborato da Freud in Totem e tabù. Divenuti successivamente seguaci di un dio vulcanico di nome Jahve, lasciarono tuttavia sopravvivere qualche traccia della religione mosaica sopravvissuta nella loro memoria collettiva, ciò che  li portò infine a identificare il dio di Mosè con Jahve.

La novità dirompente del difficile saggio di Freud risiede nel suo interpretare il monoteismo come un problema psicostorico, e nel tentativo di mettere in relazione il  tema di Mosè con il discorso antisemita. Del tutto consapevole della sua debolezza sul piano storico, Freud nutre sin dall’inizio molti dubbi circa la forma da dare alle sue tesi. Il suo ultimo libro era stato concepito qualche anno prima, nell’agosto del 1934, come un «romanzo storico», forma del tutto inedita per l’autore, e il titolo avrebbe dovuto essere Der Mann Moses. Ein historischer Roman. Sono gli anni in cui Freud legge con profondo interesse le vicende di Giacobbe e Giuseppe stupendamente narrate da Thomas Mann e ne rimane così affascinato da inviare all’autore i suoi due saggi su Mosè apparsi su «Imago», aggiungendo a entrambi una dedica, la seconda delle quali dice: «Al dottor Thomas Mann con gli auguri per l’anno nuovo da parte di qualcuno che attende». Cosa attendeva Freud? L’ultimo volume del Giuseppe, apparso solo dopo la sua morte, nel 1942.

Freud, per contro, aveva già deciso di non pubblicare il suo «romanzo» biblico. Dopo aver concluso il manoscritto, il 13 novembre 1934, così si rivolge a Max Eitingon: «Non sono capace di scrivere romanzi storici. È una cosa da Thomas Mann». Si deve a uno studioso italiano, Pier Cesare Bori, il ritrovamento del manoscritto nel 1979 che ora esce, dopo una prima edizione francese con testo originale a fronte, per Castelvecchi – Sigmund Freud: L’uomo Mosè Un romanzo storico (testo tedesco a fronte, prefazione di Giovanni Filoramo, commento di Thomas Gindele, pp. 380, euro 25,00), non si sa perché basando la traduzione italiana non sul testo tedesco, bensì sulla sua traduzione francese. Dopo quasi novant’anni dalla sua stesura, la pubblicazione di questo «romanzo storico» apre comunque un campo d’indagine inedito e inatteso, e le potenzialità di uno studio comparato con la forma rielaborata e definitiva del Mosè del 1938 sono ancora in gran parte da scoprire.