Già nel 1966, quando i Mamas and Papas cantavano California Dreamin’ immaginando in un giorno di pioggia come sarebbe stato bello essere al caldo di Los Angeles, il mito della California come terra promessa aveva cominciato a generare i suoi seguaci. Sul versante letterario, John Freeman ha preso atto delle eccellenze che la popolano e la cui scoperta è relativamente recente, dedicando dunque agli scrittori californiani l’ultimo numero della rivista Freeman’s (Black Coffe, pp. 231, € 14,00).

Attraverso una varietà di forme che va dalla poesia all’autofiction, passando per il reportage giornalistico e il racconto epistolare, gli autori raccolti filtrano attraverso i loro racconti il territorio che «detiene dal punto di vista agricolo, il primato nazionale», lo stesso che è stato il più funestato da grandi incendi. Lo Stato divenuto simbolo delle lotte per i diritti relativi alla propria identità sessuale, tra le sedi più famose della controcultura tra gli anni Sessanta e Settanta, si è tramutato nel frattempo nella «favola tecnologica che tutti conosciamo»: a proposito della Silicon Valley, Jennifer Egan scrive: «A ripensarci mi chiedo se quel fervore che percepivo non fosse l’eco del ruggito della tecnologia, che stava prendendo rapidamente piede».

La California non è solo il regno di tramonti impareggiabili: («Forse ho sbagliato a dire a quello studente di tagliare la luce dorata dal suo romanzo. Aveva ragione – scrive Yiyun Li – In California c’è davvero, ed è poetica») è divenuta anche un paradiso ultraborghese recintato a Sud dal muro di Trump, dove la povertà non può mostrarsi e si rafforza la discriminazione. Come scrive Lauren Markham, la California «è una recita», una leggenda da cui si sono espunte le pagine nere che raccontano come il mito del benessere e del privilegio, costruito dai primi coloni, affondi nelle loro violenze.