Con Mostri, l’ultimo romanzo di Frédéric Richaud edito da Ponte alle Grazie (traduzione di Francesco Bruno, pp. 176, euro 16), ci caliamo nella Parigi della prima metà del XVII secolo. In questi anni nasce Catherine Henriette Bellier, guardata come a un mostro a causa del suo aspetto sgraziato. La stessa famiglia medita di liberarsi di lei gettandola nella Senna e ciò nonostante la piccola riesce a resistere al male che le si vuole attribuire. Vi perviene grazie alla pulsione di vita e le cure necessarie della nonna paterna Geneviève, che in gioventù si era occupata di accudire Luigi XIII, re di Francia. Il riconoscimento da parte dell’altra, nello specifico la nonna della protagonista, le consente di acquisire sicurezza e tentare il salto.

A condurla alla corte di Anna d’Asburgo, a occuparsi dei problemi digestivi della regina saranno una serie di coincidenze ma soprattutto la curiosità di Catherine nei confronti delle erbe medicinali, a cui sarà iniziata grazie alla lettura di Nicolas Pernelle e la sua La farmacopea generale. In un passaggio del libro, al Re Sole che le chiede se non è stanca, anzi disgustata, di avere a che fare con tutto questo, la protagonista risponde che «gli umori, gli escrementi non mentono. Sono come le piante: non pretenderanno mai di essere diverse da quello che sono».
È infatti la dinamica generata dallo schermo menzognero a rappresentare il fil rouge che sottende l’intero testo, cioè l’altalenarsi tra realtà e apparenza. L’una cela l’altra in un gioco continuo di rimandi, svelamenti ed epifanie. L’articolazione tra la bellezza e la bruttezza abita felicemente tutto il romanzo. Così come quella che è la ricerca dell’amore, inteso come accettazione del sé, nella propria grande mostruosa e incoerente interezza, da parte dell’altro.

La giovane Catherine, invisa alla famiglia per il suo aspetto, è accolta però dalla nonna Geneviève, che la prenderà sotto la sua ala prefigurandole una sorte diversa rispetto a quella a cui sembrerebbe predestinata. Quali sono i legami che si tessono tra la nonna e la nipote e quale è l’importanza di questo riconoscimento?
È vero che la vita di Catherine ebbe un pessimo inizio. Era così brutta che, quando nacque, suo padre pensò di gettarla nella Senna, avvolta in un sacco. Fortunatamente per lei, il destino aveva altri piani. Accolta dalla nonna, scoprirà che ci sono persone per le quali l’apparenza non conta nulla. La relazione tra Catherine e Geneviève è una relazione a cuore aperto. È fondamentale. Geneviève è l’unica che la ama incondizionatamente. Per tutta la vita, Catherine farà tesoro dell’idea di poter essere amata per quello che è. Geneviève è anche la donna che le fa conoscere i segreti delle piante e la scienza dei clisteri – una forma di cura che, insieme al salasso, era di gran moda all’epoca – e che la introdurrà alla corte del Louvre, dove anche lei avrà i suoi favori.

Nel libro, Parigi, sotto i tetti argentati, è uno spettacolo meraviglioso – capace di mascherare, ciò che definisce come un mondo di «bruttezza disgustosa». Questa dinamica, della bellezza che copre l’orrore e della bruttezza che nasconde meraviglie, costella tutto il libro.
In effetti, l’intero libro si basa su questa ambivalenza. Se si scava un po’ più a fondo, ci si rende conto che il bello porta sempre con sé una parte di brutto e il brutto una parte di bello. L’errore è credere che il bello e il brutto esistano in modo assoluto, come due entità distinte. Un altro errore è credere che la bellezza e la bontà vadano naturalmente di pari passo, così come la bruttezza e il male. Nel XVII secolo, ad esempio, molti pensavano che la bruttezza fisica fosse la traduzione letterale dei vizi dell’anima. Questa confusione tra bruttezza fisica e morale condannava chiunque non rientrasse nella norma. Le cose non sono realmente cambiate. Questa confusione continua a creare guai anche oggi. Essa spiega perché ci allontaniamo dalle persone che consideriamo brutte – quand’anche non le molestiamo – e perché siamo così delusi quando scopriamo che la persona bella che tanto ammiravamo non ha tutte le qualità che pensavamo avesse.

I dettagli della quotidianità della famiglia reale, dei potenti, così come quella del mondo che le gira attorno con inchini e devozione, sono descritti con cura ma anche con una vena di ironia dissacratoria. Come a voler mostrare i dettagli umanamente grevi che riguardano tutti, pur sotto veli di natura diversa.
Mentre scrivevo questo romanzo, una frase di Montaigne continuava a scorrere nella mia testa: «Anche sul trono più alto del mondo, si sta seduti sul proprio culo». Volevo mostrare la realtà dei corpi e delle malattie di queste persone che governavano. A rischio di dire un’ovvietà, i corpi dei potenti sono come quelli delle persone comuni. Nel preparare il mio libro, sono stato colpito da tutte le malattie che hanno afflitto Luigi XIV durante la sua vita: vaiolo, gonorrea, fistola, febbre tifoidea, coliche renali, tenie, attacchi di gotta, denti marci… La Regina Madre soffriva di problemi gastrici, Mazzarino di ulcera. Luigi XIII, padre del Re Sole, fu mangiato vivo dai vermi. La Corte del Louvre era insomma un’altra Corte dei Miracoli, quel luogo putrido dove si riunivano tutti i miserabili di Parigi. Ma era anche, prima di tutto, il mondo delle apparenze. Il regno delle pestilenze e dei miasmi che galleggiano tra l’oro e il marmo; e anche quello dei tumori e delle eruzioni cutanee nascoste sotto abiti di seta e cappotti di ermellino. Le brutture e le afflizioni del corpo si nascondevano sotto strati di trucco, tessuti e profumi, così come le brutture dell’anima si celavano dietro a giri di parole, regole di etichetta e formule di cortesia.

Catherine, grazie alle sue tante sapienze, legate alla conoscenza approfondita della medicina erboristica ma non solo, sarà prossima a Anna d’Asburgo diventando amante di Luigi XIV e poi baronessa di Beauvais. Quali sono secondo lei i limiti di quella parabola che insiste sull’eccezionalità della riuscita personale e dell’ascesa sociale? Catherine riesce secondo lei a costruirsi una traiettoria di slancio diversa?
Senza dubbio. Quello che mi interessava era la storia di come una donna «diversa» cerca di trovare il suo posto tra gli Uomini. Questa è l’unica vera ambizione di Catherine, la sua unica battaglia. La sua ascesa nella società è un corollario a questa ricerca. Non è un obiettivo in sé. Inoltre, il successo personale, l’avanzamento sociale e i titoli non sono per lei garanzia di felicità. Per me, la vera felicità non consiste nell’appartenere a questa o quella casta, o nel ricoprire questa o quella posizione: consiste nel sentirsi amati per ciò che si è, non per ciò che si appare.