Ci sono musicisti, nel jazz, che in vita raccolgono buona messe di riconoscimenti, fungono da ispiratori per molti altri epigoni, attraversano fasi di incandescente presenza e creatività e che, quando imboccano una (supposta) china discendente, sembra che lascino solo un ricordo felpato, ovattato. Si sa che ci sono stati, e hanno lasciato perle preziose, qualche volta vengono ricordati, ma perlopiù nessuno ha voglia di aprire quegli scrigni e dare una rassettata ai gioielli. Freddie Hubbard, al secolo Frederick Dewayne, scomparso esattamente dieci anni fa, il 29 dicembre 2008, è uno di questi musicisti. Trombettista potente, inventivo e versatile, è impossibile cucirgli addosso una casacca stilistica prevalente, anche se tutti coloro che seguono il jazz lo identificano a prima vista con l’hard bop. Quella miscela di potenza e semplificazione strutturale del jazz che, dagli anni Cinquanta, cercò (e in fondo trovò) una via d’uscita dalle secche in cui il bebop s’era ritrovato con la morte di «Bird», Charles Parker, nel ’55. Lo stesso Parker allo scorcio della vita era inquieto sulle sue ragioni del far musica, cercava e non trovava una via d’uscita dalla solida gabbia strutturale della «forma canzone». Ci aveva provato in tanti modi, a cominciare dall’incorporare nelle strutture trionfanti di Broadway della «canzone perfetta» increspature ritmiche «altre» provenienti dall’Africa, con la mediazione fondamentale dei Caraibi. L’hard bop tagliò alle radici l’albero del bebop: non rinnegandone la velocità di fraseggio e il vigore negli attacchi e nelle pronunce, ma legando lo sviluppo della musica ad altri principi ordinatori: pochi accordi, quando non addirittura uno o due, dilatazione dei tempi, recupero delle tinte forti del soul e del gospel.
DAL VIVO
Freddie Hubbard fu anche questo, un formidabile propulsore dell’hard bop, ma non solo, dagli esordi ventenne con i trascinanti fratelli Montgomery, Wes, Monk e Buddy. È appena il caso di ricordare che, quando Ornette Coleman incise lo sconvolgente manifesto estetico Free Jazz, lo volle accanto, nel 1960, in sala di registrazione. Lo scelse anche Oliver Nelson, per il raffinato capolavoro The Blues and the Abstract Truth, una trina di timbri. Conobbe anche «l’altro» free, quello del Coltrane di Ascension, fu al fianco di Art Blakey e di Eric Dolphy in Out to Lunch. Ogni disco, un tassello imprescindibile per il jazz storicizzato. È bello che possano concorrere a ricordarlo due recenti incisioni «live» che ce lo restituiscono in periodi considerati «minori», ma che aiutano a demolire il pregiudizio sulla «china del tramonto» che in genere associamo ai musicisti che hanno avuto il privilegio di accendere fuochi d’artificio accanto ai geni. Come Freddie Hubbard.
In questi giorni ad esempio viene finalmente ristampato Gleam , in origine doppio ellepì pubblicato solo in Giappone dalla Sony nel 1975, quando dunque Freddie Hubbard aveva quarantasette anni, dal palcoscenico della Yubin Chokin Hall di Tokyo. Gli anni Settanta erano iniziati bene per Freddie Hubbard: gli album Red Clay e Straight Life erano piaciuti parecchio, il successivo First Light gli aveva fatto guadagnare un Grammy Award. La critica aveva cominciato a mostrare segni di freddezza poco dopo, con High Energy e Polar AC, e che invece, per nostra fortuna, forniscono l’ossatura per questo live dimenticato e assolutamente strepitoso, che incorpora anche anticipazioni dal successivo lavoro in studio, Liquid Love. Sul palco giapponese Freddie è all’opera con George Cables al piano elettrico, altro piccolo gigante spesso trascurato, Carl Randall al sax tenore e al flauto, Henry Franklin al basso elettrico Fender, Carl Burnett alla batteria e Buck Clarke alle percussioni. Una formazione non dissimile da quelle che, nell’identico periodo, portava sui palchi un altro trombettista accusato al momento di scarsa lucidità e cedimenti al mercato: Miles Davis. Dunque elettricità, funk e richiami alla soul music, a partire dall’iniziale Put it in Pocket, grande solidità strumentale, interventi precisi e trascinanti. Betcha by Golly Wow, Un brano, portato al successo dagli Stylistics nel ’71, è affrontato in duo con Cables, un’altra cover sempre di solido impianto «black», Too High, è la canzone che apriva uno dei dischi migliori di Stevie Wonder, Innervisions, del 1973. Solo richiami alla cultura «black» più raffinatamente sudata e danzereccia? No, e in Gleam arriva l’omaggio alla indimenticabile poetica di John Coltrane, con Spirits of Trane, e Kuntu esplora invece i meandri dalle infinite possibilità del modale, come tanti anni prima Hubbard aveva fatto con Art Blakey. Una perla da riscoprire.
NUOVI ENSEMBLE
Lo scorso anno, poi, nella bella serie della Deltamusic dedicata agli archivi della Onkel Po’s Carnergie Hall di Amburgo è comparso il brillante Hamburg 1978 inciso da Hubbard con un gruppo completamente mutato, rispetto all’ensemble di Gleam. Qui ci sono Hadley Caliman a sassofoni e flauto, Billy Childs al pianoforte, Larry Klein al basso, Carl Burnett alla batteria, un ventitreenne Larry Klein al contrabbasso (da lì a pochi anni fortunato produttore discografico, marito di Joni Mitchell e collaboratore, tra gli altri, di Dylan, Randy Newman, Peter Gabriel). È ancora un Hubbard in forma smagliante, reduce dalla stellare avventura «all stars» chiamata V.S.O.P.: con Herbie Hancock, Tony Williams, Ron Carter, Wayne Shorter, in pratica un gruppo di Miles Davis con Hubbard al posto del sciamano nero, in quel momento rinchiusosi in una cupa solitudine, senza suonare, dopo la «svolta elettrica» della propria musica che peraltro anche Hubbard aveva parzialmente intrapreso. Hubbard, ad Amburgo nel ’78, non è uno sperimentatore, ma un musicista maturo e affidabile che approfondisce la concezione di Art Blakey: non deve dimostrare niente a nessuno, ha un controllo totale sullo strumento, con il suo suono pastoso e avvolgente, ha quarant’anni, un’età in cui, per un jazzista, pulsa ancora la forza della giovinezza nel fraseggio anche più impegnativo , mentre la testa può controllare ogni dettaglio e reggere l’ architettura complessiva del suono. Hubbard, poi, può scegliere compagni di palco che hanno vent’anni meno di lui. Un segno di bella libertà, anche questo un po’ sulla scia di quanto aveva deciso di fare Miles Davis. Dunque brani dilatati e pulsanti assai semplici strutturalmente in cui scorre parecchia energia «funky» e «soul», un senso di rilassata compiutezza e felicità nel suonare: ben evidente, ad esempio in quella che potrebbe apparire come una cavalcata estenuante, oggi, i quasi diciannove minuti di Little Sunflower, e che invece si vorrebbe non finissero mai. Con uno degli assoli più «funk» per pianoforte mai incisi, quello di Billy Childs che si impunta su blocchi di accordi ribattuti di impressionante comunicativa.
TESTIMONIANZE
Bella testimonianza, da riporre accanto ai dischi più riusciti di Freddie Hubbard, che continuerà a suonare pressoché senza sosta. Nel 1993, a cinquantacinque, anni, Freddie Hubbard ha un brutto colpo: lui, uno dei trombettisti più potenti e affidabili della storia del jazz scopre che il labbro non tiene più, si ferisce e non regge la pressione sul bocchino della tromba. Saranno anni dolorosi, per riprendere il controllo e rigenerare i tessuti che sembrano sfarinarsi nell’urto con l’ottone. Alla fine Hubbard riuscirà a ritrovare il suo suono, ma imbracciando il flicorno, strumento che richiede meno impegno fisico, e dal suono più morbido, perfetto per eseguire ballad e allentare la tensione. Il fuoco se n’era andato. Ma era stata davvero una bella, incandescente fiammata.