Ancora razzismo nella Nba. In America si è alzato un nuovo polverone per l’autocensura del patron degli Atlanta Hawks, Bruce Levenson, che ha messo in vendita la franchigia della Georgia, per frasi a contenuto razziale in una mail di due anni fa inviata al presidente degli Hawks, l’ex Roma Danny Ferry e saltata fuori all’improvviso. Stavolta, niente caso Sterling, il proprietario dei Los Angeles Clippers messo alla porta dalla Lega nei mesi scorsi sempre per offese razziste (si rivolgeva alla fidanzata in una conversazione privata chiedendole di non portare persone afroamericane ad assistere alle partite del suo team e di non postare foto su Instagram che la ritraessero con afroamericani) ma che ha fatto causa alla Nba, uscendo poi di scena con la cessione della squadra per due miliardi di dollari all’ex Ceo di Microsoft, Steve Ballmer.

Il patron degli Hawks ha anticipato la mano pesante della Lega, pronta a intervenire dopo una riunione fiume con un ristretto numero di proprietari. In sostanza, Levenson sosteneva nella mail che troppi tifosi di colore – la maggior parte dei sostenitori degli Hawks – avrebbe allontanato dal palazzetto di casa quelli di razza bianca, con più dollari da spendere in tasca. Per esprimere al meglio il concetto, il magnate si è servito di tutti i cliché del repertorio razzista da bar, dalla musica hip hop che allontanerebbe gli spettatori bianchi (Atlanta è 18esima per media spettatori nella Lega) che invece vanno matti per il country. Sino alle cheerleaders, tutte afroamericane, anziché bianche oppure al 90% degli stessi afro che affollerebbero i bar al palazzetto dello sport.

Quindi, sarebbero gli afroamericani, i neri come li chiama Levenson nella mail, ad allontanare i bianchi dal basket ad Atlanta. Senza dimenticare che nella lunga e continua crociata contro Sterling, il patron degli Hawks si era schierato a favore della Lega. Ora, mostrando almeno uno straccio di coerenza in un mare di intolleranza, ha deciso di farsi da parte, senza cause, senza protestare. Ovviamente, non lo ha fatto gratis. Consegnando la fotografia di una Lega in cui il razzismo non è mai scomparso, nonostante la maggior parte degli atleti siano afroamericani. Insomma, come aveva fatto intuire il proprietario dei Dallas Mavericks Mark Cuban a proposito del caso Sterling, sarà difficile trovare nella Nba proprietari senza peccato.
Ma la lotta al razzismo dai piani alti della Nba è forte, senza figli né figliastri. Chi sbaglia, paga, è costretto a vendere, si trova contro addetti ai lavori, stampa, opinione pubblica. Una volta saldato il cattivo Levenson, che vuole un assegno da 425 milioni di dollari per cedere le quote degli Hawks (cioè 1/5 del costo pagato da Ballmer per i Clippers), la Lega continuerà la caccia contro il patron razzista di turno.

È il messaggio lasciato da fuoriclasse afroamericani come Bill Russell, leggenda dei Boston Celtics negli anni Sessanta, che si vide negare una camera d’albergo in North Carolina per l’All Star Game 1958: «Tu sei un negro, sei inferiore. Una sostanza untuosa, puzzolente, bruciante che ti ricopre», così si sentì il numero sei dei Celtics. Per questo motivo pare che Danilo Gallinari, Denver Nuggets, uno dei quattro alfieri della pallacanestro italiana nella Nba, abbia deciso di vivere negli States, a fine carriera.

È ancora scottato dal caso Carlo Tavecchio, il neopresidente della Figc, neppure sfiorato dalla commissione disciplinare ma sotto inchiesta all’Uefa nonostante la lettera inviata alle 53 federazioni per rimediare al Bananagate, a Optì Pobà, con il suo sponsor itinerante Lotito, in delirio d’onnipotenza, che fa collezione di foto nei ritiri della Nazionale italiana. Vogliamo dar torto a Gallinari?