Come può il divano diventare l’oggetto simbolo di un artista che ha sempre fatto sua la filosofia dell’azionismo? In questo paradosso si racchiude il fascino e l’imprevedibilità di Franz West, protagonista di un’antologica a sette anni dalla morte, approdata alla Tate Modern dopo una prima tappa al Centre Pompidou (a cura di Christine Macel e Mark Godfrey, fino al 2 giugno). I divani in mostra, come anche nella storia di West, si sprecano: indimenticabile l’immagine dello schieramento di sedute coperte da tappeti persiani, progetto presentato a Documenta 9, anno 1992, dove l’artista attrezzò una grande spazio come cinema all’aperto. Luogo di visioni, di riposo, di incontri, di letture, e naturalmente, essendo West viennese, di sedute psicoanalitiche: alla Tate sono state ricostruite quattro fila, che rendono l’idea di quella installazione dove la chiamata alla partecipazione andava disinvoltamente di pari passo con un’idea di disimpegno. Per West lo stare seduto o meglio sdraiato era una necessità fisica dettata dalle sue problematiche condizioni di salute. In realtà non si tratta sempre di sedute tranquille: West aveva infatti davanti agli occhi la poltrona sulla quale si distendevano i pazienti di sua madre, che era dentista e praticava la sua professione in casa, nel quartiere popolare di Karl-Marx-Hof a Vienna. Si chiamava Emile West, e da lei Franz aveva preso anche il cognome, per cancellare quello del padre che si era allontanato prestissimo da casa.
Vien da pensare che vedendo la madre in azione, nella fantasia di West sia maturata quell’idea di sculture come protesi, adattabili alle situazioni di ciascuno: è così che, con una pratica pienamente azionista, tra 1973 e 1974 si era fatto conoscere con i suoi Passstücke, parola quasi intraducibile inventata dal suo amico filosofo Reinhard Priessnitz, e che può essere resa come «pezzi che si adattano». Sculture in cartapesta, nate per essere vissute, usate, agite. Oggetti che rifiutano a priori l’idea dell’opera come feticcio, che sono somma di imperfezioni, che rivendicano la propria natura brinquelabant (un termine efficace usato da Christine Macel, nell’introduzione al catalogo, traducibile come «traballante»).
La scena viennese in quegli anni settanta si presentava particolarmente originale, dominata da un azionismo che metteva al centro in termini fortemente espliciti la componente del corpo. Le figure faro erano Arnulf Rainer e Hermann Nitsch, alle quali si era affiancata una corrente esistenzialista e post dadaista, quella della Wiener Gruppe. West guarda agli uni e agli altri, ma si tiene al riparo da tentazioni sia espressioniste che esistenzialiste. Il suo è un approccio libero, ironico, dettato da una sorta di meravigliosa nonchalance estetica. Se c’è un caposcuola dell’azionismo viennese con cui tesse una relazione è piuttosto Dieter Roth, cui lo lega l’idea di un agire artistico come esperienza sempre aperta.
In un’intervista rilasciata nel 2009 a Elaine King, Franz West aveva raccontato con molta lucidità questa sua genesi artistica: «Forse la professione dentistica di mia madre ha avuto un’influenza vitale nel modellare la mia attitudine estetica. Lei aveva il suo studio in una stanza della nostra casa, e io ero circondato da materiali organici, materiali che si decomponevano in quello spazio medico. Ma preferivo proiettarmi sul futuro, che ho sempre guardato con ottimismo. Quando i precursori della Pop art sono approdati a Vienna, ho capito che quella connessione tra vita quotidiana e colori sarebbe stata per me una rivelazione importante». Euphoric sculpture è il titolo di quell’intervista; un titolo che rende efficacemente l’idea di come West con il suo lavoro artistico balzi fuori da tutti i piani inclinati dell’interiorismo, della visceralità o anche del simbolismo alla Beuys.
Nel 1985 Harald Szeeman aveva invitato West a partecipare a una mostra che era un tentativo dichiarato di ripensamento sulla scultura. Skulptur Sein era il titolo di quella rassegna che si tenne a Vienna e poi a Düsseldorf. West portò ben nove opere tra le quali Zitat, esempio emblematico dei continui cortocircuiti che lui sapeva creare. Zitat significa «citazione» e può essere riferito al fatto che il soggetto era il suo letto d’infanzia che faceva realmente da anima di quella struttura verticale, messa in bilico su uno spigolo e rivestita di carta d’alluminio e cartapesta. La scultura si accompagnava poi, come consuetudine per West in quegli anni, a una vera e propria citazione «postverbale», elaborata da lui stesso con l’amico Ferdinand Schmatz: «L’ultima versione di questa scultura ha per origine il titolo di un articolo sull’arte etrusca: dove la goffaggine oscilla verso l’eleganza». L’opera vive dunque di queste convergenze vitali e felicemente contradditorie: la scrittura elaborata «sul divano» si fa corpo verbale di un ready made (il vecchio letto) trasfigurato grazie ai bagliori argentati di cui è rivestito, messo eretto, inevitabilmente precario e ingoffito dalle gibbosità della cartapesta. Tutto questo lo troviamo concentrato in un qualcosa che si fa fatica a definire ancora, schematicamente, come scultura, per via di quel potenziale performativo che ancora riversa davanti ai nostri occhi.
Scrive giustamente Christine Macel che Franz West agisce in assenza di ogni inibizione, fagocitando pezzi di banalità quotidiana in processi fluidi e liberi da ogni regola. La sua è un’opera generosa e nello stesso tempo avida di tutto; un’opera in cui il confine tra sfera individuale e sfera condivisa viene continuamente sollecitato e messo in discussione. La lunga serie di amici e colleghi che nel catalogo sono stati convocati a restituire le loro testimonianze sono la prova provata di come West disseminasse la sua arte avvertendo la necessità di lasciarla aperta a tanti contributi collaborativi. Ad esempio, il dialogo con Heimo Zobernig, che avrebbe dovuto limitarsi alla progettazione delle basi, va ben oltre l’orizzonte funzionale: così in mostra troviamo una magnifica scultura di West in cartapesta del 1988, schiacciata dal suo stesso supporto. La stessa cosa avviene con Herbert Brandl, a cui tante volte West aveva lasciato piena libertà nel dare il colore alle sue opere. Alla Tate questo irriducibile dna collaborativo ha poi prodotto l’intervento di Sarah Lucas, che ha curato l’allestimento di alcune sale, su standard saggiamente divertiti ma sobri.
Le contaminazioni, i rimescolamenti, gli incroci sono ben più che delle trovate di uno spirito anarchico. Sono invece sostanza nelle opere di West. Per questo è difficile restituire West fuori da questo intreccio che ogni volta moltiplica le mani, le voci e le parole. È un artista che non resiste alla propria feticizzazione, e che quindi soffre nel momento in cui viene isolato negli spazi asettici di una galleria (in questo momento è esposto da Gagosian a Roma e da David Zwirner a Londra). La sua è una cifra diversa e radicalmente ironica, come ricorda la testimonianza del gruppo gelitin in catalogo: nel 2011 erano stati invitati da lui a esporre una «doppia epifania». La sua era Epifania su una sedia: un grande, meraviglioso asteroide rosa, irradiato di erotismo, che anche alla Tate viene proposto con l’invito a mettersi naturalmente seduti.
Infine, dopo aver sperimentato sedie e divani lungo il percorso, in uscita dalla mostra, davanti a un video con West al lavoro, ecco alcuni dei suoi magnifici ciambelloni, questa volta in alluminio saldato anarchicamente (come tante sue sculture da esterni), di un rosa spregiudicatamente sensuale. Naturalmente sono lì perché ancora una volta ci si sieda o anche ci si sdrai, nonostante venga segnalato che sono tutti di collezioni private. Ma nel vocabolario di West non esiste la parola «Verboten».