«Passai parte del 1969 in studio a completare Hot Rats, con qualche esibizione marginale insieme a Ian Underwood e Sugarcane Harris; ma la direzione era incerta. L’album, che guarda un po’, a me piaceva un sacco, fece capolino nelle classifiche di Billboard al numero 99 ma sparì subito. Avevo prodotto, almeno negli Stati Uniti, un altro disastro commerciale. (L’idea giusta c’era! Un disco tutto strumentale, tranne una canzone, con Captain Beefheart alla voce! Proprio lui, che non è un cantante! Perché sprechi il tempo prezioso dell’America così, testa di cazzo?!)».
È lo stesso Frank Zappa a raccontare brevemente la storia del disco forse più famoso a suo nome, ritenuto dai critici un capolavoro fin da allora, esattamente mezzo secolo fa, quando il 10 ottobre 1969 esce in simultanea negli States e in Inghilterra; da allora l’album da un lato resta un longseller per rockettari buongustai, dall’altro è reputato da autorevoli musicologi, come ad esempio in Italia Enrico Merlin, una pietra miliare di tutta la musica del Novecento, in grado di sfuggire agli incasellamenti, andando ben oltre i concetti di rock, jazz, avanguardia.
BELLEZZA
Zappa tuttavia sta con i piedi per terra e, in qualità di rockstar alternativa, cerca la popolarità nelle vendite senza mai tradire il proprio credo di un’estetica complessa fra ironia, dissacrazione, citazionismo, studio e professione, nella consapevolezza di essere capito e apprezzato soprattutto fuori contesto, della serie «nemo propheta in patria». Ricorda infatti: «Quel disco in realtà è sopravvissuto a tutto quello che è uscito nel 1970, è un pezzo di catalogo e per i nostri amati compagni delle Isole Britanniche spicca come “l’unico disco bello mai inciso da Zappa”».
La bellezza di Hot Rats costa però assai cara al proprio autore, costretto pochi mesi prima a sciogliere i mitici Mothers of Invention, che per un lustro filato ribaltano sia il perbenismo dello show business con recital-cabaret dalle forti azioni musical-provocatorie, sia l’idea di album stesso mediante concept sui generis – Freak Out Absolutely Free, We’re Only in it for the Money, UncleMeat – dove satira e dadaismo si uniscono a una profonda conoscenza della black music e dello sperimentalismo novecentesco (Schönberg, Cage, Stravinskij, Varèse…).
Tutto nasce dal fatto che, all’inizio del 1969, il celebre impresario George Wein, padre del Newport Jazz Festival, convince Zappa a partecipare a una tournée, sullo stile del Jazz at the Philarmonic, inserita nel circuito dei grossi locali sulla East Coast. Assieme alla fusion band di Gary Burton, al gruppo quasi free di Roland Kirk e alla mitica orchestrona di Duke Ellington, i Mothers of Invention, iniziano a suonare al Jai Alai Fronton di Miami, per spostarsi quindi in una sala del Sud Carolina, dove Frank assiste a una scena pietosa. Vedendo il grande «Duca» implorare un anticipo di 10 dollari, decide subito di sciogliere la band: «Eravamo insieme da cinque anni – ricorda ancora Zappa – con varie formazioni, ma improvvisamente “ogni cosa” mi sembrava assolutamente disperata. Se Duke Ellington doveva chiedere in ginocchio a un qualsiasi assistente di George Wein dieci verdoni, cosa cazzo ci facevo io con un gruppo di persone che cercava di suonare rock’n’roll o roba che era “quasi” rock’n’roll».
La risposta è semplice: Frank paga i membri della band 200 dollari a settimana per tutto l’anno, con o senza ingaggi e quando si suona aggiunge le spese di viaggio e alloggio, con l’aggravante di essere in deficit di ben 10mila dollari. Zappa cancella il proprio gruppo – che peraltro rifonderà un anno e quattro anni dopo con altro organico e differenti intenzioni, rispettivamente col nome The Mothers e poi con quello originario – non solo per ragioni finanziarie, ma per il fatto di voler tentare soluzioni espressive a lui ignote come l’avvicinamento al jazz.
LINGUAGGI LONTANI
Per la scena musicale si tratta di un momento in cui, proprio durante l’anno 1969 (e per esteso dal 1968 al 1971) due linguaggi tra loro sempre più lontani, per via di un’ostilità fomentata dai massa media, come il rock e il jazz cominciano a dialogare, non solo per le comuni radici blues, ma soprattutto per la lungimiranza tanto dei jazzmen (Wes Montgomery, Jimmy Smith, Gary Burton, Herbie Mann, Charles Llyod, Ian Carr e soprattutto Miles Davis) quanto dei rocker (Robert Wyatt, Jimi Hendrix, Jack Bruce, Al Kooper, Captain Beefheart). E dunque non è casuale che Zappa lavori a Hot Rats in parallelo al davisiano Bitches Brew, condividendo la stessa idea di band allargata grazie a strumentisti di eterogenea provenienza.
Rimasti degli ex i soli Roy Estrada (che di lì a poco formerà i Little Feat, geniale sestetto southern rock) al basso elettrico, e Ian Underwood (presentato in copertina quasi alla stregua di un co-autore) al sax tenore e qui anche flauto, clarinetto, piano, organo, Zappa si circonda perlopiù di veri jazzisti: alla batteria lo scatenato John Guerin (in precedenza al fianco di uno swinger come Buddy De Franco) si alterna al metronomico Paul Humprey (dagli anni Cinquanta impegnato sia nell’hard bop sia nel r’n’b) e al martellante Ron Selico (vero soulman della percussione già con James Brown e Sam Cooke, poi con John Mayall nel seminale Jazz and Blues Fusion).
La formazione viene completata ai contrabbassi dall’anziano coolster Max Bennett e dal cantautore Shuggie Otis (figlio del grande bluesman Johnny Otis, anch’egli contattato quale vocalist) presente in quei mesi anche su Kooper Session di Al Kooper, mentre sembra che un non accreditato Lowell George (futuro Little Feat) fornisca alla chitarra il necessario supporto ritmico.
Ma il colpo di genio alla Zappa arriva in due modi: da un lato sceglie due violinisti antitetici quali il caloroso Sugarcane Harris dal forte blues feeling e l’algido Jean-Luc Ponty (determinante, poi, a cofirmare un altro capolavoro zappiano, King Kong); dall’altro chiama appunto Captain Beefheart per cantare in due pezzi, mentre si sta riposando dalle fatiche del proprio geniale masterpiece, Trout Mask Replica, concluso ad aprile.
Alternando quindi gli 11 musicisti a seconda delle modalità comunicative, Zappa opera per Hot Rats su tre livelli: i brani a mo’ di jam session aperte, con rari elementi preordinati (Willie the Pimp e The Gumbo Variations), i pezzi composti a tavolino per via delle pregnanti strutture organizzative (Peaches in Regalia, Little Umbrella, It Must Be a Camel), una pagina ibrida nel senso di variazioni sul tema con parti sia scritte sia improvvisate.
Nonostante l’apparente eterogeneità, Hot Rats suona compatto, lasciando nell’ascoltatore ancora oggi l’idea di qualcosa di inedito, originale, seducente grazie a un colorato neoavanguardismo, e di cui nessuno all’epoca – nemmeno lo stesso Zappa, che già dal successivo Burnt Weeny Sandwich cambierà rotta a ogni disco per almeno un lustro – comprende l’enorme portata innovativa; e le tante geniali intuizioni di Hot Rats non saranno fatte proprie né dal jazz né dal rock e nemmeno da quel neogenere sincretico che definire jazzrock o fusion sarebbe riduttivo e fuorviante.