Giovanni Frangi non è un incisore, e avvicina la calcografia con approccio eterodosso, che scompagina le consuetudini dell’arte a stampa aprendola a nuove risonanze espressive. Non poteva essere diversamente, e ci volle del tempo prima di approdare al giusto compromesso fra le esigenze del gesto impulsivo e la disciplina della morsura su zinco. Passerà infatti un tempo lungo fra i cimenti giovanili – quando a Brera frequenta i corsi di un grande virtuoso delle tecniche calcografiche come Pietro Diana, mentre nella sua memoria si fissavano alcune predilezioni visive di Giovanni Testori – e la stagione in cui l’incisione diventa parte integrante e formativa del suo linguaggio maturo.

Ne dà conto Show Boat di Giovanni Frangi Andata, il volume a cura di Giovanni Agosti pubblicato dalle edizioni Magonza (pp. 176, euro 25,00), che prende le mosse dall’omonima mostra al Castello Sforzesco di Milano nel 2023 per sistematizzare un vero e proprio catalogo ragionato della produzione incisoria del pittore milanese. Come spesso è accaduto nel lungo sodalizio fra i due Giovanni, da regesto catalografico il volume si è però trasformato in un congegno più complesso, in cui la narrazione biografica e stilistica è offerta, per somma di dettagli, da una serie di schede di aderente concretezza filologica: un tandem con la fortuna critica per note bibliografiche che compone Show Boat di Giovanni Frangi. Ritorno, altro volume originato da quella mostra.

Giovanni Frangi

Del resto, scrive Agosti nell’introduzione, l’incisione fu già al centro di un ambizioso progetto espositivo, non realizzato, pensato per la prima mostra di sole grafiche di Frangi: le trenta stampe del ciclo Pasadena, nate nel 2008 fra la stamperia milanese di Piergiorgio Puliti e quella udinese di Corrado Albicocco, dovevano essere ambientate in uno scorcio da gabinetto disegni e stampe appositamente costruito, giocando implicitamente sul contrasto fra un luogo di fruizione raccolto ed esclusivo per amatori, e una ricerca insofferente alle consuetudini e alle specificità dell’incisione.

A quelle date Frangi aveva ripreso a lavorare con ritmo intenso sull’incisione da quasi un decennio, dapprima con Puliti – lo stampatore di Pericoli e Gabai – poi soprattutto con Albicocco, a cui si devono alcuni dei fogli più importanti della sua produzione: quelli in cui i neri sono più intensi e profondi, con una consistenza tattile vellutata che si trova raramente nell’incisione italiana. Su quel crinale, infatti, si giocava la partita di un approccio nuovo e un modo insolito di intendere l’arte a stampa, facendo migrare effetti altrimenti impensabili al di fuori del perimetro della pittura. Frangi, infatti, ha portato nello spazio circoscritto della lastra di zinco i temi caratteristici della sua ricerca, senza farne dei d’apres o una semplice opera di traduzione artigianale, ma trovando quelle tecniche più adatte a lasciare una traccia istantanea: dal carborundum al lavis e alla maniera a zucchero, egli non ha disdegnato nemmeno la combinazione empirica di questi procedimenti per avvicinarsi a certi effetti di trasparenza, sfruttare certe gore altrimenti possibili solo con le tecniche ad acqua, o certe colature date da pigmenti fluidi: quel mondo di forme nato grazie a un disegno rapido e immediato ha trovato la sua restituzione sintetica sulla matrice calcografica, mettendo da parte per un momento la stratificazione di materia presente in molte stagioni della sua pittura. L’incisione, anzi, arriva nel momento in cui la tavolozza si è alleggerita e la stesura si è fatta sottile, contribuendo a quello che Giorgio Verzotti, presentando la mostra udinese del 2008, aveva definitivo lo «scacco al naturalismo, dal cuore della natura».

D’altra parte, come sottolineato in più punti di Show Boat. Andata, Frangi non ha mai lavorato sul motivo, servendosi della mediazione fotografica per annotarsi, come un taccuino di schizzi, luoghi e situazioni: la prima organizzazione compositiva avveniva dunque con l’obiettivo puntato sul soggetto, dando alla pittura lo spazio per far decantare quel frammento di realtà. Le sue immagini, del resto, si palesano come delle istantanee, o come il ricordo che si imprime sulla retina tralasciando i dettagli in favore delle masse. Era già accaduto con Pasadena, in cui, notava Verzotti, si era compiuta una «radicale riduzione degli indici di riconoscibilità» dei motivi vegetali che lo avevano colpito visitando il giardino botanico statunitense: gli stessi che l’avrebbero indotto a soffermarsi su un motivo della pittura di paesaggio caro alla tradizione moderna come le ninfee, che in breve tempo si sarebbero trasformate nei sassi sul fondo del torrente Tambach, o nei pesci dell’acquario di Genova.

Quello che in un primo tempo poteva sembrare un effetto di forte controluce – postulando uno sguardo ravvicinato sul soggetto al punto da perdere le coordinate spaziali – nel tempo si era chiarito come sintassi di forme distribuite sul piano secondo una struttura decorativa, indipendentemente che si soffermasse su un motivo naturale o su un paesaggio vero e proprio: da After nobu del 2004 (tav. X) a Milano del 2013 (tav. XXXIV), entrambe frutto del sodalizio con la stamperia udinese.

Già il cimento col monotipo, scoperto nel 2000 all’Aurobora Press durante un soggiorno a San Francisco, lo aveva instradato verso la sintesi di forme attraverso tracciati minimali, poco più che notazioni. Fu però la collaborazione con Albicocco, dopo un primo libro d’artista nel 2000 su commissione della Zanussi, a offrirgli le chiavi per un rapporto compiuto fra immagine, lastra e foglio da stampa, scongiurando il rischio di un segno fluttuante su un bianco abbagliante: la spericolatezza artigianale dello stampatore di Vedova e Kounellis gli aveva dato l’abbrivio e rivelato il segreto per dar corpo alle grandi, cupe distese acquatiche delle risaie piemontesi, degli arcipelaghi asiatici e delle foreste più folte.
E qui, improvvisamente, irrompe il colore, squadernando un ventaglio inimmaginabile di possibili combinazioni di inchiostri, e con fogli che richiedono una, ma più spesso due lastre, chiedendo all’intemperanza pittorica la pazienza di un processo che scinde l’esecuzione in più fasi. Sono i colori timbrici e artificiali tramandati da Fontana a Schifano – con un occhio all’amato Twombly – riemersi dalla china degli anni novanta, a cui rimandano i titoli musicali di alcuni fogli: da Lucio Dalla a Patty Pravo. Ma quando l’inchiostro si incupisce e l’atmosfera si fa umida e umorale, sembra di sentire nel sottofondo l’immersione sonora di Sibelius e Debussy.