Nel 1975, dopo quattordici anni di lotte e guerriglia, l’Angola, con il Mozambico e la Guinea portoghese, ottenne l’indipendenza dal Portogallo. Subito, però, ebbe inizio la guerra civile angolana che, con l’intervento più o meno diretto di Stati Uniti, Unione Sovietica, Cuba e Sud Africa, si sarebbe protratta fino al 2002. È questa la cornice storica entro la quale si svolge Teoria generale dell’oblio (traduzione di Romana Petri, Neri Pozza, pp. 219, euro  16,50) dell’angolano José Eduardo Agualusa, una delle voci più importanti, prolifiche e note del suo paese.

Poco prima del ‘75, Ludo, la protagonista del romanzo, portoghese di Aveiro, sbarca a Luanda intontita dagli ansiolitici. Viaggia al seguito di sua sorella Odete, che ha sposato un ricco ingegnere angolano. Agorafobica, vittima nel suo paese di un misterioso incidente, se il cielo portoghese già la intimoriva, quello africano, scopre, la paralizza. «Certi colori», confida Ludo al suo diario, «non dovrebbero esserci in un cielo sano».

Nel pieno dei disordini che seguono alla dichiarazione di indipendenza, quando già il cognato ha organizzato il rientro a Lisbona, lui e Odete svaniscono nel nulla. Ludo non vede altra soluzione che barricarsi in casa con Fantasma, il pastore tedesco albino. Spaventata dalle incursioni delle bande di ladruncoli venuti a ripulire gli appartamenti degli ex coloni, la donna tira su un muro di mattoni nel pianerottolo. La sua casa sparisce alla vista: lei e il cane, per il mondo, non esistono più. E così per i successivi ventotto anni, cioè fin dopo la fine della guerra civile.

Ispirato a una storia vera, quella di Ludovica Fernandes Mano, Teoria generale dell’oblio si affretta a rescindere i legami con la cronaca subito dopo averli dichiarati: «Ciò che leggerete», afferma l’autore nella nota introduttiva, «è finzione. Pura finzione». Ludo è frutto piuttosto di un’ossessione o, dice Agualusa, di una «colonizzazione». Parola che non può avere nulla di casuale, data la centralità che trovano, nelle letterature africane dei paesi passati per l’occupazione europea, i processi di colonizzazione e decolonizzazione.

Come fosse riuscita quella donna, straniera in una città in subbuglio che avvertiva come profondamente ostile, a sopravvivere per quasi trent’anni senza contatti col mondo circostante: questo l’assillo di Agualusa. Sotto al Palazzo degli Invidiati, dove Ludo vive nascosta, si tesse una trama complessa che vede moltiplicarsi i suoi attori. Tutta gente «dimenticata», o che tale vuole essere. Carrasco, il mercenario portoghese che, graziato da una fucilazione «negligente» e con l’aiuto dell’ex suora Madalena, si rifà una vita tra i mucumbais, allevatori seminomadi del Sud dell’Angola; Piccolo Soba, poverissimo e poi ricchissimo per l’involontaria intercessione di Ludo; Papy Bolingô, il ventriloquo che riscopre la propria angolanità nei bar di Parigi. E, ancora, la bella Ritinha, Daniel Benchimol, che colleziona sparizioni, le dolci mulatte di Benguela. Una umanità eterogenea e apparentemente senza debiti con la vita di Ludo, relegata nelle sue stanze sempre più vuote perché, per cucinare, deve bruciare tutto, persino i libri e le assi del pavimento.

Al pari di Ludo, però, anche gli altri hanno bisogno, per sopravvivere, di farsi dimenticare, perché tutti hanno debiti o misfatti sulla coscienza che non possono in nessun modo pagare. Oblio temporaneo che è, nel romanzo, gestazione di identità inedite le quali faticosamente, a un prezzo anche altissimo, vengono alla luce. Mediante processi di segregazione e annullamento, scelti oppure subiti, la metamorfosi ha inizio. Non solo quella di Ludo o degli altri personaggi, ma quella di un’intera nazione, l’Angola impegnata a ridefinire se stessa. Nella luce spietata del suo appartamento, quella luce che dapprima detesta, Ludo partorisce la donna che sarà, scrivendo sui diari e poi, finita la carta, sui muri di casa: appunti, pensieri, poesie; un haiku, persino.

«Le pareti hanno la mia bocca», dice come se parlasse di un neonato. La sua vitalità è quella di un fiammifero: bruciare e poi, così ci si aspetterebbe, spegnersi, illuminare e infine incendiare una rete di esistenze ben più ampia della coppia che lei forma col suo cane: proprio questo avviene a partire dalle scelte che Ludo opera per soddisfare i suoi bisogni primari, bere, mangiare, difendersi. È negli atti compiuti per necessità – piantare mais, limoni e fagioli nelle aiuole del terrazzo, pescare al lazo le galline che gli inurbati, poco avvezzi alla vita di condominio, allevano sui balconi, dare la caccia ai piccioni usando come esca i diamanti che il cognato aveva promesso a Carrasco in cambio del suo aiuto per tornare a Lisbona – che Ludo modifica senza volerlo i destini altrui, come un deus ex machina inconsapevole del proprio operato.

La narrazione di José Eduardo Agualusa è robusta, vitale, e spesso sfocia nel comico, dove per ogni accadimento bizzarro c’è una spiegazione razionale, la quale puntualmente arriva, ma solo dopo che ci si è arresi, trascinati da una trama talmente fitta da rendere problematico raccapezzarsi. E se il lettore ne esce sollevato, perché trova tutte le risposte cui ha diritto, non può dirsi altrettanto del popolo di Luanda che abita queste pagine, e che capitola davanti a una serie di continue sparizioni e apparizioni: scrittori francesi di cui resta solo il cappello, l’ululato di cani che si rivelano inesistenti, tombe vuote, mani invisibili che rubano l’argenteria e lasciano in cambio una bottiglia di Coca-Cola e sei panini…
Incapace di raccapezzarsi, alla gente non resta che appellarsi alla magia: «Kianda… Kianda», mormorano tutti. Kianda è la divinità acquatica che l’immaginario portoghese aveva mortificato riducendola a sirena, cui è affidato il compito di rappresentare quello smottamento identitario così importante nel romanzo. Una dea moralmente neutra, né volta al bene né risolta al male, che si diverte a far scomparire cose, animali e persone e a farli riapparire altrove, quando più ne ha voglia.

Dall’alto del suo appartamento, Ludo vede «resuscitare lo stagno», cioè l’habitat naturale di Kianda che, si racconta, aveva la sua dimora nel pantano sul quale è sorta Luanda. La rinascita è fatta di una natura che si riappropria degli spazi urbani, come testimonia l’ippopotamo che Ludo, credendosi pazza, vede ballare nella veranda di fronte. Ma soprattutto metaforica: la crosta che si spacca, la fine di ciò che si era creduto permanente; o, come diceva un altro grande scrittore angolano, Pepetela, nel Desiderio di Kianda, il ritorno di un canto primordiale solo provvisoriamente soffocato dalla mano del colonialismo.

È singolare come la trasformazione tocchi più degli altri la stessa Ludo, la non-angolana che si scopre non più portoghese. La sua vita povera di legami si avvinghia al poco che ha avuto, per lei, un vero senso: «un ragazzino», scrive, riferendosi a Sabalu, che riesce a entrare nel suo appartamento passando dalle impalcature; e poi «la mulemba là fuori e il fantasma di un cane». Neanche la luce, che è poi la cifra stilistica di questo romanzo luminoso, la spaventa più. «Mostri», dice infine, libera, obiettivante, «mostrami i mostri: queste persone nelle strade. La mia gente».