A solo un anno di distanza dall’edizione originale in lingua francese, Ombre corte pubblica l’ultimo libro di Françoise Vergès Un femminismo decoloniale (pp. 115, euro 11). La buona traduzione a cura di Gianfranco Morosato è costellata da una curatissima trasposizione delle note dell’originale francese, con aggiunte e riferimenti alle traduzioni italiane (quando già esistenti) delle opere citate. La qualità dell’impianto è provata dalla scelta di spiegare fin dall’inizio, alle lettrici e ai lettori, il valore dell’aggettivo che accompagna il nome delle protagoniste di questo testo: le «donne razzizzate». Il riferimento esplicativo attinge a un testo di Vergès del 2017: «se, evidentemente, la ‘razza’ non esiste, alcuni gruppi e individui sono oggetto di una ‘razzizzazione’, cioè di una costruzione sociale discriminante, marcata dal negativo, nel corso della storia. I processi di razzizzazione sono i diversi dispositivi – giuridici, culturali, sociali, politici – con cui le persone e i gruppi sono etichettati e stigmatizzati. ‘Razzizzata’/ ‘razzizzato’ non è quindi una nozione descrittiva ma analitica. La razzizzazione, abbinata al genere e alla classe, produce forme specifiche di esclusione».

SI TRATTA per la politologa e attivista francese di mettere in luce le travail invisibile delle donne razzizzate, in quanto soggetti resi e costretti a restare subalterni dalle forme più degenerate del capitalismo, quello razziale. Il capitolo iniziale debutta parlando proprio di queste donne, quelle che nel gennaio 2018, dopo quasi due mesi di sciopero, vinsero contro la Onet, società di pulizie che subappalta per la Snfc (la società nazionale delle ferrovie francesi). Le parole con cui Vergès sceglie di aprire il primo capitolo del suo saggio risaltano, oggi, per l’eco d’attualità nei tempi della pandemia: «Queste lavoratrici, che fanno parte di una forza lavoro razzizzata e prevalentemente femminile, che svolgono lavori sottoqualificati e quindi sottopagati, lavorano mettendo a rischio la loro salute, il più delle volte a tempo parziale, all’alba o alla sera quando gli uffici, gli ospedali, le università, i centri commerciali, gli aeroporti e le stazioni ferroviarie si sono svuotati, e nelle camere d’albergo quando i/le clienti se ne sono andati/e. Ogni giorno, instancabilmente, miliardi di donne puliscono il mondo».

Partendo dal valore sommerso del lavoro di queste donne e dalla rabbia legittimata dal non riconoscimento di tale valore, Vergès desidera mettere in discussione il primato ideologico del femminismo bianco, civilizzazionale. Questa ridiscussione permetterebbe infatti di ripensare al rapporto tra i femminismi. Vergès mostra come la divisione del mondo a opera dello schiavismo coloniale del XVI secolo abbia stabilito storicamente delle priorità vitali tra gli esseri umani (quelle di «un’umanità che ha il diritto di vivere e una che può morire»); secondo la studiosa questa stessa divisione avrebbe attraversato anche i femminismi occidentali.
La seconda parte del libro tratta allora la questione del femonazionalismo, il femo-imperialismo, e del marketplace feminism (femminismo di mercato) – diversi ma unanimi nell’islamofobia e nell’adesione «a una missione civilizzatrice che divide il mondo tra culture aperte e culture ostili all’uguaglianza delle donne».

L’AMMISSIONE della parzialità e dell’orizzonte limitato di certo femminismo bianco potrebbe costituire già di per sé un inizio di dialogo con i femminismi intersezionali. Il riconoscimento storico e la consapevolezza lucida di come gli strascichi d’oppressione e di sfruttamento si ripercuotono quotidianamente sui corpi di donne e di uomini razzizzati costituirebbero poi il terreno comune per la costruzione di nuove alleanze transnazionali all’interno dei femminismi. Queste alleanze dovrebbero partire da basi di consapevolezza radicate nelle specificità e nelle differenze di soggetti incarnati e situati; dovrebbero guardare all’economia di usura sui corpi di quelle donne che praticano i mestieri di ménage e di care – quell’economia «che divide i corpi tra quelli che hanno diritto a una buona salute e al riposo, e quelli la cui salute non ha importanza e che non hanno diritto al riposo».
Françoise Vergès dedica ampio spazio alla narrazione di quello che lei chiama il «femminismo di politica decoloniale», riconducendo le sue origini e il suo ancoraggio storico al «femminismo di marronage». Il termine marronage, un calco dallo spagnolo, sta a indicare le schiave e gli schiavi fuggitivi alla ricerca di libertà e di nuove comunità in cui sostare – mantenendo costante il presupposto della relazionalità, ma anche quello del displacement e dell’immaginazione di spazi di libertà. Questo femminismo, indocile e di resistenza, ha disegnato le tracce del femminismo decoloniale alla cui rappresentazione Françoise Vergès dedica le pagine di questo testo agile e deciso. Questo femminismo, ostile alla «fascistizzazione politica, alla predazione capitalista» è radicato «nella coscienza di un’esperienza profonda, concreta, quotidiana, di un’oppressione prodotta dalla matrice Stato, patriarcato e capitale».

RAPPRESENTA il luogo per un immaginario utopico da raggiungere tramite il saper cogliere e riconoscere l’intreccio tra rapporti materiali nelle relazioni di dominio e si esperisce attraverso una pratica della disobbedienza attiva volta alla visione di una possibile futurity. Una «futurità» che sappia sfibrare le maglie collose del pensiero neoliberista, che per convincere ripete da decenni che non ci sono alternative alla sua economia e alla sua ideologia. Non quindi con «lo scopo di migliorare il sistema esistente ma di combattere tutte le forme di oppressione: giustizia per le donne significa giustizia per tutti».