Dopo anni di dura lotta contro la malattia e un’edema polmonare che, per un periodo, le ha compromesso la voce, Françoise Hardy ritorna alla vita con un nuovo album, Personne d’autre, a tre anni di distanza da L’amour fou, forte di una spiritualità profonda e di una serenità commovente nell’intravvedere lo spettro della morte. A partire dal primo singolo, La Grande Sophie, Le Large (E domani tutto andrà bene, tutto sarà lontano/Là alla fine/quando salperò lontano), la scrittura della Hardy, auto-definitasi «miracolata» dopo le traversie di salute, sembra possedere una nuova, elegiaca libertà di composizione mentre la voce, ancora più ricca di sfumature di malinconia e di buio, sussurra canzoni che evocano il passato e i suoi antichi bagliori, oltre che i mutamenti della memoria di un’età in equilibrio fra presente e passato.

Lo stesso mélange fra oggi e domani traspare anche dal videoclip di Le Large, diretto da François Ozon in un bianco e nero bergmaniano con echi di Persona, dove la cantante mostra a un adolescente le sue immagini di un tempo, in una fusione tenera e sognante fra due età in (diversi) stati di grazia e proprio nel video, l’icona parisienne non teme di accostare il suo bellissimo volto/icona degli anni ’60 alle stesse splendide fattezze contemporanee.

Il disco, sorta di prolungamento in dodici brani di una «resurrezione», e quasi scritto interamente da lei, brilla, come di consueto, in un crepuscolo di spleen e leggerezza, come nella splendida, sontuosa cover di Seras-tu là dell’antico sodale Michel Berger, compagno di scrittura nell’indimenticabile Message personnel del 1973.

E prova a cullarsi nel ricordo di un amore più forte del tempo (Trois petits tours e la title track Personne d’autre sono lettere destinate al suo eterno compagno di vita, il cantante e attore Jacques Dutronc, (Un amore dagli occhi color del cielo…), mentre l’elegante intimità che l’ha sempre contraddistinta, nonostante lo yeye effimero dell’epoca di suoi coevi recentemente scomparsi, come France Gall e Johnny Hallyday, sembra non conoscere fine, proprio come l’ultima parola pronunciata nel disco «fine», che si chiude, proprio come un film, in una catarsi.