Quando l’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, commentando gli abusi sessuali commessi negli anni ’80 -’90 da padre Preynat, un prete della sua diocesi ancora in attività, disse: «Grazie a Dio quei fatti sono ormai caduti in prescrizione», quel «grazie a Dio» rimbombò nella sala come uno schiaffo in faccia alle vittime. Il nuovo film di François Ozon, Grace a DieuGrazie a Dio, in sala il prossimo 17 ottobre – Gran Premio della giuria all’ultimo festival di Berlino, racconta l’attivismo delle diverse vittime riunite nell’associazione La parole libérée, che nel gennaio del 2016 sono riuscite a far incriminare Preynat per maltrattamenti su minori, denunciando anche l’ostruzionismo di Barbarin.

La vicenda prende avvio grazie ad Alexandre (Melvil Poupaud) che si rivolge a Barbarin (François Marthouret) quando scopre che il prete che lo aveva abusato da piccolo è ancora in servizio e per di più sempre a contatto con i bambini. L’uomo, cattolico praticante, sposato e con cinque figli, ha fiducia nella Chiesa e spera che il cardinale agisca per allontanare Preynat dai minori pronunciandosi pubblicamente contro la pedofilia ma, poiché non accade nulla di concreto, decide di rivolgersi alla polizia. Da lì prende avvio un’inchiesta che scoperchia una catena di violenze mettendo in contatto Alexandre con altre vittime, molto diverse da lui ma vicine in questa causa comune. Nel luglio 2019, il tribunale ecclesiastico ha ridotto Preynat allo stato laicale e Barbarin è stato condannato a sei mesi con la condizionale per omissione di denuncia. Il l Papa però non ha ancora accettato le sue dimissioni.

«Grazie a Dio» è stato scritto e girato quando il caso Preynat era ancora aperto. Questa circostanza le ha posto limiti o difficoltà?

La storia si svolge tra il 2014 e il 2017 e io ho girato in segreto a Lione nel 2017 con un titolo falso, Alexandre, perché nessuno capisse il tema. Le difficoltà sono sorte dopo la realizzazione, quando Preynat ha tentato di ostacolare l’uscita del film in sala. Ma la magistratura si è pronunciata a mio favore dicendo che la libertà d’espressione prevale sulla presunzione d’innocenza.

La narrazione è racchiusa tra due scene speculari: in apertura c’è lo sguardo dall’alto in basso del clero sulla città, in chiusura c’è lo sguardo dal basso all’alto di una vittima verso la cattedrale che domina Lione. Come si evolve il rapporto tra queste due prospettive?
Lione è la città più cattolica di Francia. Ogni anno il cardinale la benedice dall’alto della basilica di Fourvière ed è con questo atto che ho scelto di aprire il film. Volevo mostrare il potere della Chiesa e delineare un contesto in cui nonostante la laicità dello stato il cattolicesimo è molto presente. Dunque, era importante che alla fine, dopo aver accompagnato le vittime nel loro percorso di lotta, mostrassi di stare dalla loro parte dicendo che anche la Chiesa dovrebbe esserlo.

Nel film vediamo diversi tipi di famiglia, anche di famiglia cattolica, alcune sono amorevoli, altre no.
Ogni famiglia è una realtà a sé, mi interessava il fatto che ciascuna avesse reagito a suo modo di fronte agli abusi. La famiglia del personaggio che dà avvio alle denunce, Alexandre, si è rifiutata di confrontarsi con gli eventi, la famiglia di François (interpretato da Denis Ménochet, ndr) invece ha provato a reagire scrivendo lettere, cercando di allontanare Preynat da altri bambini. Hanno riposto fiducia nell’istituzione ecclesiastica pensando che il problema fosse stato risolto per poi scoprire, pieni di collera, che non era così. Il mio non è un film «contro» la Chiesa ma «per» la Chiesa, come dice uno dei personaggi che milita nell’associazione La parole libérée. Lui lotta perché la Chiesa si trasformi, compia una rivoluzione. È per questo che il film ha avuto successo in Francia, i cattolici non si sono sentiti sotto attacco in quanto tali. Molti sono furiosi, vogliono che le autorità ecclesiastiche prendano le decisioni giuste per sradicare la pedofilia nella Chiesa e cambiare le cose. Il messaggio di Cristo è curare i più deboli, non servirsene a scopo sessuale. Per me era importante criticare l’istituzione come luogo di un potere che si protegge invece di risolvere i problemi che lo affliggono.

I personaggi incarnano molteplici componenti sociali, tra questi, Emmanuel (Swann Arlaud) è il più sfumato: senza lavoro, una relazione tossica, eppure dotato di un quoziente intellettivo superiore. Sembra quasi rappresentare una contemporaneità smarrita, piena di potenziale inespresso, una generazione sotto scacco…
Mentre scrivevo la sceneggiatura ho incontrato molte vittime, era chiaro che Alexandre e François avrebbero avuto un ruolo perché sono quelli che hanno dato avvio al caso. Ho cercato però di raccontare altre figure, possibilmente di diversa estrazione sociale, più marginali e senza una famiglia tradizionale, e quando mi hanno presentato Emmanuel l’ho trovato molto toccante. Lui è un bambino massacrato, che ancora non ha superato il trauma. Figlio di divorziati (la madre è interpretata dall’attrice Josiane Balasko, ndr), aveva una relazione conflittuale con il padre che aveva visto molto poco durante l’infanzia. La sola figura paterna che aveva incontrato da piccolo era quella del prete che però lo abusava con tutti i danni che ne sono derivati sul piano emotivo, sessuale e professionale.

I protagonisti principali rappresentano più modi di rapportarsi con il fantasma della maschilità…
Mi interessava molto far vedere uomini emotivi, cosa rara nella vita e ancor più al cinema: sul grande schermo abbondano gli uomini d’azione forti, eroici. Avevo ipotizzato di intitolare il film L’homme qui pleure, l’uomo che piange, proprio perché volevo mettere in scena la fragilità maschile; in un’epoca come quella del #MeToo in cui si domanda l’uguaglianza tra uomini e donne bisogna tenere conto che l’immaginario maschile deve cambiare.
Ha scelto una fotografia luminosa, sembra quasi che esprima visivamente l’effetto chiarificatore che si produce quando una vittima riesce a raccontare ciò ha subito.
Però mostra anche quanto quella luce può essere oscura, perché dare libero corso alla parola può essere molto doloroso non solo per il singolo ma anche per chi gli sta accanto. Ci vuole molto coraggio per parlare, alcuni non lo faranno mai.

Infatti nel film si dice anche che la scelta di non prendere parola ha profonde ragioni sociali.
Le persone non sono capaci di parlare prima di avere trovato una certa stabilità nella loro vita. Alexandre e François sono sulla quarantina, hanno un lavoro fisso e una famiglia numerosa. Emmanuel e il giovane che decide di non denunciare sono in una situazione diversa, temono di essere etichettati come le «vittime di un pedofilo». Per questo è importante che le leggi sulla prescrizione cambino: quando preparavo il film la prescrizione per questo tipo di reati scattava dopo vent’anni, oggi è stata alzata a trenta ma non sempre questa soglia è sufficiente.
Nella scena del confronto tra il prete pedofilo e una delle sue vittime in commissariato, sulla parete appare un poster di «Il caso Spotlight». Che relazione c’è tra quest’ultimo e «Grazie a Dio»?
Non ho inventato nulla. Le vittime hanno raccontato di avere davvero visto quel poster quando sono andate a fare denuncia , si sono sentite rassicurate, hanno pensato che il poliziotto sarebbe stato dalla loro parte. Il caso Spotlight è diverso e complementare a Grazie a Dio perché mostra dei giornalisti che lottano per una certa causa, mentre io racconto la storia di un gruppo di vittime che ha utilizzato anche i media per dar voce alla propria lotta.

«Grazie a Dio» mostra anche il conflitto tra una parola piena di senso, che sorge dal profondo del tempo e della sofferenza, e la parola vuota di un’istituzione che inganna i fedeli con promesse che non mantiene.
Il problema della Chiesa è che le sue parole di condanna contro la pedofilia sembrano forti ma poi non seguono i fatti. Il discorso istituzionale funziona spesso così.