Franco Venturi (1914-1994) è uno dei grandi storici italiani del ’900. Tra i pochi ad essere letto, discusso e citato da una comunità scientifica altrimenti dominata dall’accademia angloamericana. Due sono i grandi temi che hanno segnato la sua ricerca: il populismo russo e l’Illuminismo italiano. Su ambedue tali multiformi problemi storici, i suoi lavori (Il populismo russo, 1952 e 1972; Settecento riformatore, opera in cinque volumi composta tra il 1969 e il 1990) rimangono necessari punti di riferimento. Per tali motivi non può che accogliersi con interesse la pubblicazione di questi suoi Scritti sparsi (Aragno, pp. 472, euro 30).

È STATO DEFINITO, Venturi, come lo «storico di prima delle rivoluzioni». E in effetti, l’obiettivo delle sue ricerche è consistito nell’individuare una genealogia della rivoluzione. Di quella francese e di quella bolscevica. Una genealogia che partisse da un motivo fondante: la circolazione delle idee, e di come queste favorissero l’incontro tra una «necessità» (il superamento dell’Ancient regime) e l’azione cosciente di avanguardie politiche, minoritarie e violente, ma non per questo «irrazionali». In altre parole, come la lotta acerba di un’intellettualità irrequieta aprisse «spazi di possibilità» per la politica. È il «cosmopolitismo» ad essere uno dei cardini della ricerca venturiana, che irrompe nella società europea tra il XVIII e il XIX secolo, determinandone i progressi e i traumi.

La storia del populismo russo costituisce una sorta di miracolo storiografico. Proprio Venturi, partigiano azionista, convintamente democratico ma, al tempo stesso, convintamente anticomunista, decifrerà il «mistero» della rivoluzione russa attraverso lo scavo archeologico del movimento democratico e socialista nella Russia tra il 1850 e il 1881. Da Herzen a Bakunin, e poi la ricostruzione delle straordinarie figure di Cernyševskij, di Dobroljubov e della rivista Sovremennik, la questione del «nichilismo» e il rapporto con il blanquismo, la funzione mitopoietica dell’Obšcina (la comune contadina), le prime forme organizzate di lotta politica e il loro rapporto con «l’azione», la nascita di Zemlja i Volja e, infine, la formazione della Narodnaja Volja, l’organizzazione che raggiungerà il suo maggior successo uccidendo lo Zar Alessandro II, il 1 marzo 1881.

Questa esperienza stratificata, intellettuale ma diseredata (animata di raznocincy – intellettuali «di altre classi», cioè poveri), fortemente venata di misticismo messianico, è un prodotto di quella circolazione delle idee segnata dal cosmopolitismo, ma incrocia motivi profondi della cultura russa, su cui si innesta e che scompagina dall’interno. Una generazione, Venturi non fatica a riconoscerlo, di eroi. Come i primi cristiani, martiri di una vittoria che sarebbe arrivata solo pochi decenni più tardi, e possibile forse solo grazie al martirio iniziale.

PROPRIO RIPERCORRERE le vicende della rivoluzione russa, suggerendo l’origine del «leninismo» nel rapporto tra Lenin e il movimento populista, attirò su Venturi le critiche del mondo comunista italiano. Ricorderà infatti lo storico torinese che, «per non aver voluto applicare le critiche di Lenin ai populisti degli anni ’90 a quelli degli anni ’70 si vide l’oggetto persino di una critica di Luigi Russo». Il tranquillo professore crociano, e poi comunista dal 1948, addebitava a Venturi di non aver usato Lenin contro il populismo. Anzi, addirittura di aver voluto spiegare Lenin attraverso il populismo. Ma saranno proprio le ricerche e le intuizioni di Venturi ad aprire la strada a interpretazioni della rivoluzione russa meno ossificate. Ad esempio quelle di Vittorio Strada, eminente indagatore delle scaturigini populistiche del leninismo, inteso come incrocio tra Machiavelli e Blanqui innestato sul solido tronco plechanoviano dell’ortodossia marxiana. Oppure, altro esempio, le ricerche di Valdo Zilli, ideale prosecutore della storia del populismo russo che dal 1881 – termine cronologico del populismo venturiano – arriverà alle soglie della rivoluzione del 1905.

VENTURI FU, DUNQUE, un innovatore. La rivoluzione divenne cosa viva, restituita alla sua contraddittoria dimensione materiale. Stride, con tanta scrupolosa acribia storica, la lettura che Venturi darà del lungo Sessantotto italiano. È possibile ricavarla da due saggi ospitati nel libro: The Roots of Terrorism (1982), e La democrazia in Italia. Note di uno storico (1984). Spiegare la complessa vicenda italiana degli anni Settanta ad un pubblico di intellettuali stranieri non dev’essere stato semplice per un Venturi scioccato dalla radicalità di piazza. L’accortezza dello storico lascia però qui il passo alla polemica liquidatoria. Tutta la vicenda politica scaturita dal Sessantotto viene letta attraverso il prisma del «terrorismo», teleologico fine a cui dovevano tendere le lotte di classe in Italia. Persino la «strategia della tensione», culminata – dice Venturi – nella strage di Bologna, è da addebitare all’«atmosfera totalitaria» del Sessantotto. Posizioni che semplificano un fenomeno storico con diverse attinenze (si parva licet) con quel populismo anch’esso – come empaticamente rilevato da Venturi – violento, minoritario, estremistico, persino terroristico. Laddove vi era comprensione, vi è ora – negli anni Ottanta – rigido rifiuto. Una conclusione inaspettata, che non incide sulla grandezza del Venturi storico, ma che ci dice qualcosa del rapporto tra l’intellettuale e il proprio tempo.