La Svizzera ha sganciato a sorpresa il franco dal cambio semi-fisso con l’euro, abolendo il floor a 1,2 franchi contro 1 euro stabilito 3 anni fa, nel settembre 2011 in piena crisi della moneta unica, per evitare una esagerata rivalutazione della propria moneta. La decisione ha causato un crollo della Borsa di Zurigo (fino a meno 10%) e una rivalutazione del franco sull’euro, che ha toccato +27%. Per l’euro è una buona notizia, nel senso che la svalutazione, a breve, favorisce l’export. Inoltre, la Svizzera dà un supporto al probabile avvio del quantitative easing che la Bce dovrebbe far partire forse già dal prossimo 22 gennaio. Una risposta per combattere la deflazione che minaccia la zona euro.

Lo Swatch Group parla di «tsunami» per l’economia svizzera. Per gli esportatori sarà un problema, soprattutto per la media impresa. Danni anche al settore del turismo, che potrebbe perdere 5 miliardi di franchi. Alla decisione potrebbe seguire un periodo di forte speculazione, il pil svizzero potrebbe cadere di un 0,7%, 60-80mila posti di lavoro sarebbero a rischio. Problemi anche in Polonia, Ungheria e Croazia, dove molte famiglie hanno contratto mutui immobiliari in franchi svizzeri, che erano più favorevoli di quelli nelle rispettive monete locali. Vantaggi invece soprattutto per i transfrontalieri, che in un giorno hanno visto il salario in franchi aumentare di quasi il 30% se cambiato in euro (zona dove vivono e comprano). La rivalutazione del franco svizzero potrebbe venire sfruttata dalla Grecia, per recuperare alla grande i famosi 60 miliardi di euro (che se sono in franchi saranno aumentati del 30%) di evasione fiscale che sembra dormano tranquillamente nei forzieri svizzeri.

La Svizzera ha deciso questa mossa anche perché non ha problemi di afflusso di denaro (Berna ha approfittato anche della crisi tra Ucraina e Russia).

Intanto, la Svizzera e l’Italia hanno concluso un accordo fiscale dopo tre anni di trattative, che permette ai contribuenti italiani con conto oltralpe di dichiararsi al fisco senza penalità aggiuntive, esistenti per i paesi in «lista nera» (paradisi fiscali). Per il governo italiano, è «l’ultima occasione per mettersi in regola». Intanto, la Svizzera obtorto collo è stata obbligata a negoziare con la Ue un accordo fiscale globale, che permetterà lo scambio automatico di informazioni bancarie sui conti di cittadini dell’Unione che hanno soldi “grigi” oltralpe.

L’avvocato generale della Corte di giustizia della Ue ha dato il via all’Omt, il programma di acquisto di debito pubblico da parte della Bce, che era sul tappeto dal 2012. La sentenza definitiva è attesa per quest’estate, ma dovrebbe seguire il parare dell’Avvocato generale. Era stata la Germania, attraverso la Corte costituzionale di Karlsruhe, ad essersi rivolta alla Corte di giustizia Ue, perché Berlino contesta la legalità della scelta di Draghi. L’acquisto di debito pubblico, con tutti i paletti che porrà la Bundesbank (che resta contraria), potrebbe dare un po’ di fiato all’economia agonizzante della zona euro. L’euro è debole, è stato quotato rispetto al dollaro al di sotto del valore al quale era stato introdotto sui mercati nel gennaio 1999 (1,1747, mercoledì era a 1,1729). In sei mesi, l’euro ha perso il 10% rispetto al dollaro. È un piccolo aiuto alla crescita, visto che favorisce l’export (i prodotti sono meno cari): riguarda soprattutto le grandi imprese, tipo aeronautica. I vantaggi diminuiscono per i prodotti che si basano sull’import di materie prime, che sono più care. L’euro basso coincide in questo periodo con un calo notevole del prezzo del petrolio, cosa che rende meno sensibile l’effetto negativo che una moneta debole ha sull’import di energia. Se a questa configurazione si aggiunge il quantitative easing della Bce, con l’acquisto di debito pubblico e l’aumento della liquidità, la zona euro può sperare in una spinta per far uscire la testa dall’acqua. Ma gli economisti avvertono: l’effetto sarà comunque di breve durata sulla crescita, un po’ il primo anno, un po’ di più il secondo, per poi progressivamente calare e annullarsi.

Altro sarebbe una riflessione sull’indirizzo della crescita economica, su investimenti di qualità. Ma la corsa affannosa al piano Juncker, che per il momento resta finanziato con 21 miliardi anche se ne promette 315 con l’effetto-leva, non sembra permettere una riflessione sulla qualità della crescita.