Si era creato un certo scompiglio, nel 1974, in seguito alla realizzazione di Un arcobaleno in fondo alla via: Franco Summa (Pescara 1938-2020) aveva dipinto l’anonima scalinata di una chiesa di Sant’Angelo a bande di colore brillante, che si poteva vedere in lontananza lungo il rettifilo della via principale del paesino abruzzese.

NE ERA SCATURITA una vertenza giudiziaria, e un’accorata difesa da parte dell’amico Alessandro Mendini dalle pagine di Casabella, e una presa di posizione in suo favore da parte di Giulio Carlo Argan, di cui Summa aveva seguito le lezioni alla Sapienza, dove si era laureato con una tesi di estetica. L’eco di quell’evento desta l’attenzione di Enrico Crispolti che tempestivamente lo invita nella sezione Ambiente come sociale da lui curata alla Biennale di Venezia del 1976 fra le azioni di «partecipazione spontanea», poi ancora nel 1978.

L’ACCENTO ERA POSTO sull’azione collettiva promossa nel 1974 nel centro di Pescara in occasione del referendum sull’abolizione del divorzio, chiedendo ai presenti di tracciare a grandi lettere un No! con bombolette spray su un grande lenzuolo a terra, fino a creare una tessitura verbovisiva: era quello l’atto di «partecipazione urbana» a cui si riferiva Crispolti, riservandogli la copertina del suo Arti visive e partecipazione sociale nel 1977.
Da allora il critico sarebbe stato un compagno di strada, ravvisando in lui l’onda lunga della ricostruzione futurista dell’universo: l’intervento cromatico acceso e smaterializzante, capace di intromettersi a livello percettivo come una presenza retinica ipnotica dentro lo spazio urbano, obbliga a rivedere i parametri della visione e a ripensare l’ambiente, nei suoi perimetri e attraversamenti.

ALLO STESSO TEMPO, il colore doveva diventare una presenza pervasiva, gioiosa e ironica, in tutte le fibre della vita quotidiana. Era del 1975, infatti, Sentirsi un arcobaleno addosso, la serie di ventiquattro magliette appositamente tessute con ventiquattro fasce orizzontali di colore alternate a creare una scala cromatica (ripresa nel 2008 nell’irriverente abito talare di Pastor Angelicus per la Vetrina 133 in via di Ripetta a Roma, in collaborazione con Livia Crispolti) che non aveva a che fare con la rifrazione fisica della luce, come il titolo di molti suoi lavori farebbe pensare, rispondendo piuttosto al climax di uno spettro mentale, giocato su un’architettura del colore applicato alle forme e alle superfici piani.

IL COLORE di Summa non era erede dell’estetica della plastica, stava anzi al riparo dall’euforia kitsch degli anni Ottanta di molti suoi coetanei, per i quali tacitamente era stato una fonte di ispirazione. Del resto, fedele alla vocazione di «operatore estetico», aveva scelto come campo d’azione la propria terra d’origine, con un radicamento al territorio che sarebbe emerso nelle sculture ceramiche a bande colorate riprese dai costumi tradizionali abruzzesi.

AVEVA DATO UN SEGNO forte della sua vocazione ambientale e dei suoi esiti architettonici la Porta del Mare, eretta per sei mesi, nel 1993, sul lungomare di Pescara. La sua, come scriverà in Arte Urbana – il libro edito nel 2016 per il Premio Michetti alla carriera – era una pittura «monumentale perché ricorda, perché ridisegna lo spazio architettonico in dimensione sensorialmente, intellettualmente ed emotivamente coinvolgente; la pittura trasfigura l’ambiente in luogo dalle molteplici prospettive: narrative, simboliche, memoriali, storiche, immaginative».

MONUMENTI URBANI e monumenti domestici stavano costellando il suo immaginario, risalendo a una dimensione archetipica allusiva e misterica. La vita è sogno, la vita è segno, aveva scritto titolando un importante testo di poetica del 2000. Ma forse, ricordando quella Summa Ars profilata a caratteri cubitali nei Giardini di Castello nel 1978, il suo universo si poteva riassumere in tre parole, che aveva ripetuto in ordinata ed eloquente sequenza a grandi lettere e coppie di complementari in molti lavori: amare, progettare, essere.