L’esplodere della pandemia ha trovato impreparato il mondo scientifico. L’OMS e i centri di ricerca faticano a fornire risposte alle tantissime domande che l’umanità pone sul virus Sars-Cov 2. La corsa al vaccino riapre il dibattito sulla ricerca scientifica e sull’innovazione tecnologica asservite al profitto. Franco Piperno, già leader di Potere Operaio, docente e studioso di fisica e astronomia, di solito ama contemplare il cielo notturno, amalgamando osservazione astronomica, narrazione mitologica, ironia politica, riflessione cosmologica. Abituato ad esplorare orizzonti immensamente estesi e corpi celesti di titanica grandezza, si sofferma qui sulla dimensione infinitamente piccola del coronavirus. Così insieme a noi rielabora, attualizzandole e rivitalizzandole alla luce del contesto mutato, alcune sue recenti tesi pubblicate da Commonware, sul rapporto tra scienza, ricerca, tecnologia e capitalismo.

Ritiene che il ritardo nell’elaborare cure e antidoti contro la Covid 19 in fondo sia ineluttabile oppure dipenda anche da un approccio connaturato all’odierna matrice della ricerca scientifica?
È particolarmente significativo il fatto che in assenza di rimedi, si sia fatto ricorso all’isolamento dei pazienti affetti da Covid19, al distanziamento sociale e alle cure di supporto, che furono modalità adoperate anticamente, quando ancora le società non disponevano delle odierne sofisticate strumentazioni. Nel nostro tempo, dominato dal tardo-capitalismo, quasi tutti i saperi propriamente scientifici hanno subito uno scombussolamento. In passato la «filosofia della natura» era propiziata nelle università. Col passare del tempo, si è man mano trasferita nel complesso militare-industriale. Oggi la fabbrica dell’innovazione tecnologica, separata dalla brama di conoscenza, comporta costi astronomici. A mantenerla in funzione è una marea di operai-ricercatori, in una modalità emulante la catena fordista.

La ricerca di un vaccino e di una terapia efficace per la cura della Covid19 è affidata alle multinazionali biotech. Ancora una volta siamo appesi al cosiddetto «capitalismo cognitivo». Ma tale definizione non costituisce una comoda semplificazione? Non è un ossimoro?
Da molto tempo nelle società che tecnologicamente hanno raggiunto uno sviluppo elevato, di contro assistiamo ad un vertiginoso abbassamento del livello culturale, oltre che intrinsecamente ad un’impennata nei livelli di specializzazione della forza-lavoro. È evidente che in presenza di una problematica così atavica e aggressiva come una pandemia, tutto ciò rivela una propria inconsistenza. Più che «cognitivo», questo capitalismo tecnologico afferma un modo di produzione che spinge verso un’applicazione furibonda della scienza nella direzione della valorizzazione del capitale stesso. Dunque, costanti sono le innovazioni di processo e di prodotto. Tuttavia si rivelano prive di rapporto con l’accumularsi delle conoscenze.

Che cos’era la scienza per gli antichi?
Niente a che vedere con quella di oggi. Si sostanziava in un autentico concetto normativo astratto. La scienza era una ragionata conoscenza delle cose di cui è fatto il mondo, una ricerca delle «essenze», secondo regole chiare e definite. La conoscenza scientifica era universale, guardava al tutto, non alla parte. Non era concepibile una visione scientifica estranea al generale. Si palesava come strumento ed obiettivo contemporaneamente, senza perseguire interessi particolari. Soprattutto, prima dell’età moderna la scienza non aveva un carattere di invasività, cioè non possedeva la velleità di cambiare il mondo, bensì desiderava conoscerlo, contemplarlo.

Qual è il rapporto tra scienza e strumentazione tecnica nell’epoca moderna?
È lo stresso rapporto che si è andato affermando a partire dal Rinascimento, consolidandosi poi in Galileo, Cartesio e Newton. Non più una scienza riconducibile alle regole classiche. La nuova scienza impiega la matematica non per «impadronirsi delle essenze», bensì mira a conoscere il reale per applicarsi ad esso. Mi piace porgere l’esempio della matematizzazione dell’idraulica. E così s’afferma una tendenza manipolatoria che per convenzione è definita «sperimentazione». Ne consegue una velleità, un progetto, che ambisce a dominare il mondo. E che comunque può rivelarsi però fragile, né più né meno di quanto non lo fosse in epoche remote, dinanzi alla diffusione di un virus, propagato dal dinamismo commerciale esattamente come accadeva in passato. Del resto, subordinandosi alla tecnica e all’industria, la scienza sembra non avere più l’ambizione alla conoscenza. Le basta aspirare al dominio dell’universo.

Tre anni fa lei sosteneva che le università europee del XIX secolo come quelle di oggi, avendo assunto la fisica, la filosofia della natura, come paradigma della scientificità, hanno finito per privare i saperi umanistici di ogni rilevanza scientifica. Quanto incide questa privazione sul presente?
Incide molto! Il concetto stesso di scienza non è normativo, ma descrittivo; in quanto tale, ogni descrizione è relativa. Le forme possibili della scientificità sono ancorate alla storia, quindi mutabili, sempre in rapporto con la costruzione di esperimenti di cui esse svelano il senso. In assenza del sostrato umanistico, dei suoi presupposti, qualsiasi conoscenza scientifica può rivelarsi vacua.

E da questa alienazione – come più volte da lei ribadito – «nasce il mito di una conoscenza assoluta in nome della quale alcuni potrebbero offrire ad altri una sorta di sapere incontrollabile».
Eh sì, tutto così diviene passibile d’essere appreso senza mai essere agito, cioè semplicemente ricevuto, anzi acquistato. Ed è ancora questa alienazione che permette alla mitologia scientista, soprattutto in tempi di vaneggiamento e crisi, di giustificare e quasi accreditare ciò che è privo di qualsiasi rapporto con la scienza: la parapsicologia, gli extraterrestri, la catastrofe ambientale e tanto altro.

Si continua a destinare fondi per l’acquisto di cacciabombardieri. Che rapporto c’è tra tecno-scienza e complesso militare-industriale?
Nei paesi capitalisticamente avanzati lo sviluppo scientifico è strettamente connesso all’organizzazione del lavoro, in particolare nell’industria bellica. Nella misura in cui la ricerca scientifica è organizzata, pianificata, sovvenzionata, essa dipende dal potere politico e dalle sue finalità. Per questo rimango convinto che una critica delle politiche governative non può di certo esentare dalla sua potenza erosiva la ricerca scientifica stessa.

Dunque ritorna attuale il tema del ruolo della tecnologia nei processi produttivi. Riecheggia il Marx dei Grundrisse.
È noto che la tecnologia contemporanea scaturisce principalmente dalla applicazione della conoscenza scientifica alla produzione. Se escludiamo la possibilità che se ne possa attuare un impiego passivo, non è possibile trasferire la capacità di fabbricare nuove tecnologie, la stessa propensione a realizzarle, in assenza di una comprensione effettiva delle scienze che le sottendono.

Un’altra scienza è ancora possibile?
In proposito, mi piace citare il pensiero incredibilmente lungimirante di un filosofo francofortese: se vi fosse un cambiamento qualitativo del progresso in grado di spezzare il nesso tra la razionalità della tecnica e quella della divisione sociale del lavoro, si verificherebbe un mutamento nel progetto scientifico, per cui l’attività di ricerca, senza smarrire la sua qualità razionale, si evolverebbe in una esperienza sociale del tutto differente. In un mondo non lacerato dalla divisione tra lavoro manuale ed intellettuale, non più succube dei saperi disciplinari, la scienza potrebbe maturare una concezione della natura del tutto diversa, basata su fenomeni differenti nella loro sostanza. In sintesi, insomma, una società veramente razionale sovvertirebbe l’idea convenzionale di ragione.
_________________
Conversazione che trae spunto dalle tesi di Franco Piperno sul rapporto tra scienza, capitalismo e modernità (apparse nel 2017 sulla rivista on line commonware)