Negli anni Settanta del Novecento la critica letteraria ha toccato uno dei momenti di maggiore elaborazione teorica. In questa fase sono apparsi gli studi di Michail Bachtin sulla polifonia e sul carnevalesco; si sono perfezionati i protocolli più efficaci dello strutturalismo nella versione di Gérard Genette e sono stati elaborati da Francesco Orlando i motivi per una teoria freudiana della letteratura. I capitoli successivi delle interpretazioni sono stati soprattutto uno sviluppo di queste grandi impostazioni e hanno contribuito a modo loro, anche attraverso fruttuose ibridazioni, a rendere viva una tradizione di ricerche. Ci sono stati momenti in cui la critica è apparsa in crisi e altri, al contrario, in cui è sembrata rinascere con la ricchezza di altre proposte e sollecitazioni.

Di questa storia Franco Moretti è stato uno dei protagonisti più originali e fecondi. I suoi saggi sono diventati un riferimento per la ricchezza delle prospettive e per la capacità d’intrecciare metodi d’indagine anche assai diversificati. Dal Romanzo di formazione (1986) e Segni e stili del moderno (1987) fino a Opere mondo (1994) e un Paese lontano (2019), i suoi interventi hanno offerto esempi di un lavoro sofisticato sulle forme della letteratura e sui significati ideologici, politici, umani a cui potevano rinviare. Ricordando recentemente gli anni delle prime ricerche, Moretti ha rievocato un clima di studio appassionato e libero, che si è forse appannato nel tempo dell’Anvur e delle riviste peer-review: «Facevamo scelte contraddittorie, che esprimevano le contraddizioni della realtà: contraddizioni concettuali – come conciliare la tradizione marxista con le mille cose intelligenti fatte al di fuori di essa – e contraddizioni pratiche: che fare in un mondo a dominante americana cui la sinistra europea era (e resta) sostanzialmente estranea. Ci siamo trovati a iniziare il nostro lavoro, quando la contraddizione non era paralizzante ma vitale: una sfida, più che una maledizione. Avemmo fortuna».

Nel suo lavoro più recente, Falso movimento La svolta quantitativa nello studio della letteratura (pp. 160, €16,00) che inaugura «Extrema ratio», una nuova collana delle edizioni Nottetempo, pensata per accogliere interventi di teoria e critica letteraria, Moretti mette in gioco due modi di avvicinarsi al testo letterario: l’orientamento quantitativo, posto al cuore di alcune delle riflessioni degli anni più recenti e fondato sulla raccolta e sulla classificazione dei dati, e la via ermeneutica, che riguarda la conoscenza della forma caratterizzante la singolarità delle opere. Il bilancio che Moretti presenta è esplicito. Tra le due strade non c’è possibilità di trovare una sintesi. Tra i loro metodi esiste, piuttosto, una inimicizia fraterna. Interrogano gli stessi contenuti ma lo fanno con obiettivi reciprocamente incommensurabili: «Sono impulsi antitetici. Dioniso, Apollo. Si pensi a come lavorano sulla forma. L’interpretazione si muove tra la forma e il mondo, andando in cerca del significato storico delle opere; la quantificazione si muove tra forma e forma, tentando di tracciare le coordinate di un futuro atlante della letteratura. Per la prima, la forma è una forza, un agire: un modo di “plasmare” l’esistente che va accolto con sospetto, contrastato, e infine smascherato. Per l’altra, la forma è un prodotto finito: da misurare a mente fredda, e collocare all’interno di un vasto sistema di rapporti».

Uno dei cinque saggi del volume è dedicato a Carlo Ginzburg e al metodo che sta al cuore delle sue ricerche. I lavori di Ginzburg diventano il campo di verifica di una differenza di metodi e di obiettivi. La Scuola delle Annales e l’identificazione delle costanti si contrappongono allo studio dei casi eccezionali, in cui la norma si avvicina al limite estremo della propria identità e rischia di dissolversi.

C’è un sentiero che può collegare i due ambiti e legittimarli all’interno di una risposta globale? L’esito degli ultimi vent’anni sembra non lasciare a Moretti nessun dubbio: «Esiste, per dirla altrimenti, un modo di “vedere” le anomalie dall’interno del lavoro quantitativo? Personalmente, non lo credo: il suolo statistico non ha né crepe né strati profondi, e l’omogeneità del tempo storico è la sua stessa condizione d’esistenza». Il metodo quantitativo studia le classi dei fenomeni letterari e il campo entro cui si definiscono. L’interpretazione, al contrario, affronta le varianti e le eccezioni, che attraversano le regole di un codice e ne forzano i limiti. Le due strade restano perciò parallele e possono incontrarsi solo all’infinito.

Sono note le riserve espresse da Benedetto Croce a proposito del lavoro di Pio Rajna sulle fonti dell’Orlando Furioso: «tanto sforzo di erudizione per un risultato così meschino». In una pagina famosa della Storia della storiografia italiana del sec. XIX la divergenza si concretizza in una similitudine desunta dalla novella boccacciana di Chichibio. Ai rappresentanti della scuola storica, che ritenevano di rispettare nel loro lavoro i parametri della «scienza», affidandosi alle sole verifiche puntuali, si poteva rinnovare l’invito a mostrare «l’altro piede» dell’interpretazione. Proprio una richiesta di questo genere metteva a nudo, per il filosofo della Poesia e non poesia, la povertà e perfino il ridicolo di quelle posizioni.

Moretti, al contrario di Croce, non chiede alle ricerche quantitative di mostrare l’altro piede. È l’interpretazione, tuttavia, che riconosce la forma dentro cui prendono corpo le idee e i contenuti. E, come diceva Hegel, «è il contenuto l’aspetto decisivo dell’arte, così come di ogni opera umana».