Franco Loi è morto nella sua Milano. Avrebbe compiuto 91 anni fra poco, il 21 gennaio. Vengono in mente due versi malinconici di quello che resta forse il suo libro più impegnativo, il lungo poema intitolato L’angel, concluso nel 1994. Due versi nei quali l’io si rappresenta fragile, come ghiaccio che si scioglie e sparisce nel nulla: «Mì sun pari a quèl giass che se fa aqua / e vöj de aria pö sparìss nel nient…». Ma di Loi resta un monumentale edificio di versi, restano le visionarie creazioni del suo stròlegh – che è anche il titolo di una splendida raccolta del 1975 –, della sua poesia-stregoneria.

E DAVVERO SEMBRA MAGICA, la poesia di Loi, con quella sua capacità di abitare da sempre, perfino con allegrezza, in una specie di punto mediano, sulla soglia fra la casa dei vivi e quella dei morti. Proprio l’angelo – figura che popola incessantemente i suoi versi – è di certo un emblema irrinunciabile della sua scrittura: specialmente nell’ultima fase della sua parabola, Loi ha puntato per così dire dritto al cielo, la sua poesia si è guadagnata un evidentissimo spessore religioso, alla ricerca del «segn de Diu». Ma gli angeli di Loi non apparirebbero senza i «pàsser che fan festa», gli occhi delle donne e le osterie, insomma senza la terra: il magnifico spettacolo del mondo. Soprattutto, senza il suo mondo, quella città di Milano che l’ha adottato presto, nel 1937 (lui che veniva da un’altra grande città di poesia, Genova).
Nato da padre cagliaritano e da madre colornese, Loi riceve in dono da Milano niente meno che la lingua che anima il suo canto: il dialetto. In pochi hanno saputo plasmare il proprio dialetto con la sua originalità e efficacia. Basterà pensare che quando, nel 1978, esce una antologia fondamentale per la lirica contemporanea, Poeti italiani del Novecento – allestita da Pier Vincenzo Mengaldo – questa si chiude proprio con il profilo dedicato a lui (e Mengaldo lo presentava allora, molto significativamente, come «la personalità poetica più potente degli ultimi anni»). L’avventura di Loi ci ricorda – specie in tempi di distanza, di virtualità e non-luoghi – che la poesia non esiste senza un legame forte con un Luogo, sia esso un continente o una contrada.
Un po’ come nel grande film di Zavattini, Milano è il centro del «miracolo», ma insieme del quotidiano e delle vite degli ultimi: per le sue vie si cerca incessantemente una risposta metafisica, ma si incontrano, almeno altrettanto spesso, le immagini tragiche della Storia (così come hanno convissuto a lungo, in Loi, un impulso anarchico e la parola del Vangelo). «Basta girare Milano, e può capitarti di vedere quasi dovunque una targa a ricordo di qualche giovane fucilato o di qualcuno scomparso in Germania», scrive Loi nella sua autobiografia, Da bambino il cielo, uscita nel 2010. E ancora: «fu nel pensare ai vari morti che avevo visto durante la guerra e nel tentativo di parlare di loro che mi dissi: “Questi non li posso far parlare in italiano, perché sono milanesi, sono operai e contadini, e l’italiano non è la loro lingua”».

IL DIALETTO MILANESE è dunque una scelta obbligata, una scelta di fedeltà al vero, eppure – prodigiosamente – anche uno stupendo strumento di invenzione, di fantasia (una vera e propria lingua «altra», come è sempre la lirica moderna, tutta presa da quel suo impulso a ingannare il desiderio, a custodire ciò che si è ineluttabilmente perduto). Uno strumento che gli consente sempre – forse anche adesso che la guarda dall’altra riva – lo stupore per l’ombra della vita: «Sé g’ü de dív de l’umbra de la vita? / Sun chí che vardi föra e sun cuntent».