Per più motivi: perché il provvedimento di cui parlo solleva, effettivamente, questioni di giustizia; perché, in particolare, propone un’idea della stessa giustizia fortemente deformata e sostanzialmente autoritaria. E perché, infine, a motivare un mio atteggiamento sufficientemente disinteressato c’è la convinzione che la pensione degli ex senatori (e io sono un ex senatore) assai difficilmente verrà ricalcolata ed è altrettanto probabile che – per il demenziale meccanismo del ricalcolo proposto – io potrei rientrare tra coloro che ne risulteranno addirittura avvantaggiati (!). In ogni caso, sono un privilegiato e, di conseguenza, non dirò alcuna ulteriore parola sulla mia vicenda personale.

Voglio parlare, piuttosto, di quella di Franco Grillini, nato a Pianoro (Bologna), 63 anni fa, parlamentare per due legislature (dal 2001 al 2008). Grillini ha avuto un ruolo assai rilevante nella storia culturale e politica del nostro paese. È stato il primo esponente pubblico dichiaratamente omosessuale, ed è stato capace di fare della propria condizione una risorsa di dignità personale e di promozione collettiva. Oggi dice: «Col taglio della pensione io, affetto da tumore, non potrò più avere l’assistenza, che fino a oggi mi pagavo. Sia ben chiaro, come tutti i cittadini. Ma io ho seguito le leggi e, così come tanti altri, non ho pensato a crearmi delle garanzie alternative». La condizione e la parola di Franco Grillini spiegano forse meglio di qualunque altro esempio cosa sia davvero il giustizialismo. Ascoltiamolo ancora: «Passerò il tempo che mi resta a fare ricorsi, che potranno durare anche dieci anni. Chissà se ci arriverò».

Quale idea di giustizia comunque intesa o malintesa potrebbe giustificare la riduzione della pensione per Grillini? E quale vantaggio, da quel taglio e dal taglio delle pensioni dei suoi colleghi, riceveranno le miserabili pensioni e pensioni sociali di tanti italiani? Come si vede, sorvolo sulle ragioni storiche e giuridiche della indennità e della pensione dei parlamentari, perché davvero non voglio entrare nel merito dell’opportunità o meno di questi tagli nella loro dimensione generale. E proprio perché vi sono direttamente coinvolto. Tuttavia non posso non sottolineare come la tanta foga e la tanta furia oggi dispiegate contro «la casta» si concentrino, in via esclusiva, sulle pensioni degli ex parlamentari. E non una riga e non un’invettiva (e non una deliberazione della presidenza di Camera o Senato) si proponga di ridurre gli stipendi degli attuali deputati e senatori.

La ragione, nella sua elementare evidenza, appare strepitosa: i parlamentari decidono del destino (del reddito) degli ex e non vogliono decidere del destino (del reddito) di sé stessi. E questo è già un dato assai interessante di sociologia della politica. Ma dietro tutto ciò, va da sé, si profila quel rancore sociale che è l’autentico e più diffuso senso comune del nostro tempo. In altre parole mi sembra che tutte le energie e tutti i sentimenti, le passioni e le aspirazioni, la domanda di equità e quella di redistribuzione del reddito e del potere finiscano con il concentrarsi in un bisogno di giustizia interamente volto all’indietro. Regressivo e repressivo. Viene alla mente quella massima evangelica dove la Provvidenza «rovescia i potenti e innalza gli umili» (Lc 1,52), ma in una versione oscenamente mutila.

Nel clima attuale i potenti (gli ex potenti) seppure non vengono rovesciati vanno umiliati e mortificati. Ma a questo sembra limitarsi l’equità sociale che sarebbe propiziata dalla volontà divina o da una rivoluzione dal basso o da una politica di egualitarismo imposta autoritativamente. In questo modello di relazioni sociali, la giustizia sta solo in quell’arretramento generalizzato. E in quel processo di livellamento verso il basso. È questo il solo fine perseguito e l’unico obiettivo di equità prospettato. Ancora è questa, a ben vedere, la radice più profonda e l’interpretazione più vera del giustizialismo: una volontà di rivalsa, che prevede sanzioni uguali al fine di una perequazione obbligata e non di una libera competizione per l’eguaglianza capace di «innalzare». Emancipare, cioè. Un giustizialismo di governo e per questo ancora più odioso.