L’ultima volta che abbiamo visto Franco Citti è stato qualche anno fa durante un incontro molto speciale voluto dal fratello Sergio per informare la stampa delle prove che avrebbero cambiato il corso delle indagini sull’assassinio di Pasolini. Loro sapevano. Franco Citti seguiva i discorsi, ascoltava le domande e gli brillavano gli occhi ai tanti apprezzamenti che venivano fatti al suo lavoro, non senza lampi di ironia, ma non poteva parlare, colpito da un ictus. Arriva adesso la notizia divulgata da Ninetto Davoli della sua scomparsa avvenuta nella sua abitazione all’età di ottanta anni, malato da tempo, anche se neanche un mese fa aveva partecipato a una partita di calcio nell’ambito delle celebrazioni per il quarantennale della morte dello scrittore.

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Erano stati loro a far scoprire a Pasolini il calcio di strada, la libertà di togliersi la cravatta da professorino, diceva. Ed era stato Pasolini a «scoprirlo» negli anni cinquanta, quando ancora scriveva le poesie in friulano e iniziava a pensare a Ragazzi di vita. Glielo presentò il fratello Sergio («annamose a magnà na pizza») lui tutto sporco di calce, racconta, perché faceva il muratore con il padre. Avrebbe rappresentato la visione concentrata di un mondo, era l’accattone, il diavolo, la preda del destino tragico (dalle pieghe del suo volto e del suo animo fiorisce un Edipo re che non si dimentica), una presenza su cui il poeta poteva a lungo immaginare, elaborare concetti e immaginare storie, a dispetto della sua semplicità. Da una parte l’angelico Ninetto e dall’altra l’oscuro Franco, da difendere dal giudizio dei borghesi seduti di fronte alla tv, come raccontava Pasolini a Carlo Di Carlo: «per loro è facile condannare chi perde ore e ore del suo giorno e della sua notte a combattere contro la dolce violenza della tentazione».

Quando Pasolini esordì nel cinema divenne il protagonista di Accattone. «Lui e Accattone sono la stessa persona» diceva Pasolini e sarebbero stati interessanti i commenti di Franco nel sentirlo parlare di estetica di morte, lo definiva «sto cavolo di accattone», ma anche «un bel film sincero, girato con tutti gli amici», però poi meditava sul fatto che avrebbe fatto meglio a fare il muratore, troppa gente falsa nel mondo del cinema.

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Da quel film in poi rappresentò nel nostro cinema il volto del sottoproletario di tutte le epoche, senza bisogno di recitare ma, si raccomandava il regista, bastava che rimanesse se stesso. Diventò Carmine che torna a sfruttare Mamma Roma, il cannibale di Porcile (1969), Ciappelletto de Il Decameron (1971), un diavolo dei Racconti di Canterbury (1972), un altro demone ma orientale ne Il Fiore delle Mille e una notte (1974).

Come succedeva nel cinema del neorealismo, aveva ricevuto il marchio del suo regista. Pasolini, diceva, non gradiva che accettasse ruoli in Francia (a parte Marcel Carné di Dietro la facciata del 1963) o peggio ancora negli Usa e guai a imparare l’inglese che avrebbe potuto corromperlo (anche se poi partecipò al Padrino nel 1972 e nel 1990)). Invece la sua presenza nel cinema italiano è stata piuttosto intensa, inquieto e strafottente personaggio nei film del fratello Sergio che lo riportavano alle location e frequentazioni delle sue origini: Ostia, Storie scellerate, Casotto, Il Minestrone, Magi randagi, e Cartoni animati a cui teneva molto. In teatro nella Salomé di Carmelo Bene (nel ’63) in Requiescant di Lizzani (’67) Seduto alla sua destra di Zurlini (1968), Colpito da improvviso benessere di Giraldi (1976), Todo modo di Elio Petri (1976), La Luna di Bertolucci (1979), Il segreto di Maselli (1990).

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In «Vita di un ragazzo di vita» scritto con Claudio Valentini parla di Pasolini come di «un caso di purezza, impossibile tradirlo». Ma lui, dice, si è autotradito, ha parlato troppo, dava troppa amicizia («Quanto gli piaceva parlare, non sarebbe arrivato vivo») e sottolineava: «Abbiamo fatto le indagini io e mio fratello Sergio, il regista, nelle borgate. È escluso che sia stato Pelosi. Nessuno parlò perché venivano minacciati di morte».