La tentazione di abusare di un titolo inflazionato da un’opera di un altro siciliano come lui, Pirandello, è fortissima. Ma sarebbe pura verità. Battiato, scomparso lo scorso 18 maggio, nei suoi intensi settantasei anni di vita, quattro quinti dei quali spesi (bene) a inventare note sempre diverse è stato per davvero «uno, nessuno e centomila». Per certi versi, la sua figura assieme discretamente lontana dal clamore mediatico, e presentissima invece (per riferimenti, citazioni, interpretazioni, omaggi) in un orizzonte «popular» dove si contano sulle dita di due mani i maestri, è vicina a quella dei «grandi eretici» musicali. Si tratta naturalmente di un dato da cogliere sotto traccia, ripercorrendo a ritroso la sua carriera. Ma è così. Eretici dai più disparati orizzonti musicali. Alla rinfusa: Stravinsky, Frank Zappa, John Cage, Edgar Broughton, Harry Partch, Robert Wyatt, Sun Ra, i futuristi sonori. Tanti atomi assieme fanno corpi e cervelli, e tanti atomi di queste figure erano – consciamente o meno – presenti nell’operato di Franco Battiato. Era una creatura musicale libera, dolce e selvaggia, Battiato, quando si affacciò sulle scene musicali di una Milano tumultuosa e creativa, nei primi anni Settanta. C’era arrivato a metà del decennio precedente, aveva buoni studi musicali alle spalle, tentò prima la carta del cabaret e della scrittura di canzoni leggere da pubblicare su 45 giri, singolare presagio della seconda parte della sua vita. Poi condivise, passati quegli anni di rime ingenue e banalità melodiche, la stessa Milano di un altro sperimentatore curioso e non milanese: Demetrio Stratos. La Milano degli «anni di rame» (altro che solo il piombo!), come ha scritto Erri De Luca, dove poteva trovare posto e spazio per esprimersi anche uno strano ragazzo magro e nasuto che arrivava dalla Sicilia, in quel fermento di idee e labirinti continuamente ampliati di riferimenti che andavano a incrociarsi caoticamente, un big bang culturale mai più ripetutosi. Il misticismo accanto al materialismo più spietato, la ricerca musicale estrema e il bisogno di «tradizione» e di «folk» da riscoprire, la dimensione acustica pura e tintinnante che arrivava dalla California e quella elettrica della trance indotta da grappoli di watt dispiegati.

MACCHINE SONORE
E poi la vorace attitudine a sperimentare quel mondo delle nuove macchine e sonore elettroniche che già nel secondo dopoguerra Stockhausen e tanti altri compositori «classici», in Germania, in Francia, in Italia avevano cominciato a testare, passando un testimone inconsapevole ai giovani che avrebbero inventato il rock progressivo «cosmico». Come quello dei kraut rocker tedeschi, dei Tangerine Dream. E in Italia quello (già ampiamente e visionariamente miscelato alla «forma canzone» ) dei Sensations’ Fix e, soprattutto, di Franco Battiato da Jonia, Catania.
Andare ad ascoltare Franco Battiato nella prima parte di Settanta in concerto era un’esperienza totalizzante, immersiva, si entrava in una terra di nessuno simile a quella «dark star», la stella oscura che presidiava la terra incognita da esplorare che praticavano i Grateful Dead per trenta, quaranta minuti sui palcoscenici. Sulle assi di legno c’era lui, Battiato spesso avvolto in imbarazzanti costumi di scena attillati con stelle e fasce colorate, gli occhiali e la nuvola di capelli arruffati, le mani e lo sguardo, concentratissimo, sulle sue tastiere. Sembra incredibile a raccontarlo oggi, ma Franco Battiato, l’elegante e sfuggente signore sempre vestito come un gentiluomo siciliano benestante, nel suo periodo di ricerca ruggente e senza freni era «anche» immagine: un folletto colorato e disturbante, diretto e acido come le sconvolgenti copertine dei suoi primi dischi sperimentali per l’etichetta alternativa Bla Bla fondata da Pino Massara.
Il tutto anche per merito di Gianni Sassi, il geniale art director (e autore di testi, sotto la pseudonimo Frankestein) che per Battiato aveva impostato campagne pubblicitarie aggressive e misteriose, ma soprattutto quelle cover straniate che facevano venire travasi di bile ai benpensanti. Fetus, il primo ellepì, esce nel 1972: in copertina c’è davvero un feto umano, appoggiato su carta ocra da macellaio, il successivo Pollution presenta un limone schiacciato attraversato da un bullone, sul fronte, e il retro inquadra un Battiato con improbabile pellicciotto aperto sul petto nudo, e alle spalle c’è una croce di legno enorme, con la sua immagine. Fetus ha come sottotitolo «ritorno al mondo nuovo», da Aldous Huxley, è un collage imbizzarrito e ancor oggi sorprendente di musica concreta con suoni e rumori immessi nel flusso sonoro, tecno pop ante litteram, citazioni da J.S. Bach, le voci degli astronauti dell’Apollo 11, canzoni dalla linea melodica semplicissima, ancora molto «beat» ma sfrangiata da arrangiamenti e timbriche che le rendono oggetti strani. Massara intanto aveva incontrato un ingegnere del suono inglese che aveva inventato un maneggevole prototipo di sintetizzatore portatile, il VCS3, realizzandone due copie: una finisce nelle mani dei Pink Floyd, che lo usarono per The Dark Side of the Moon, uno sotto le dita flessuose da pianista classico di Battiato, che ne farà la sua arma segreta sperimentale. Pollution è il degno seguito di Fetus: questa volta il tema è una sorta di visionario proto ambientalismo, la musica batte piste space rock, incrocia il valzer viennese, divaga per lande psichedeliche. E la voce di Battiato, in un brano, declama convinta formule di fisica, invece che parole poetiche. Dal vivo l’esperienza è sconvolgente: e chi vuole averne testimonianza può andarsi a ricercare il bel libro con dvd curato da Matteo Guarnaccia per Vololibero sui festival alternativi degli anni Settanta, dove peraltro trovate anche un’improvvisazione inedita al sintetizzatore di Battiato.

MINIMALISMO
Il capolavoro del catanese sperimentale arriva nel ’73 con Sulle corde di Aries, danno una mano jazzisti di valore, intervengono i fiati del Conservatorio di Milano e una voce recitante. Sequenze e frequenze è una suite da sedici minuti dove Battiato comincia a rivelare i suoi amori dal mondo del minimalismo, sul pulsare del VCS3, la voce che mette a nudo brandelli di ricordi d’infanzia, quasi una salmodia da cantore orientale, in bella anticipazione su sue successive tematiche, poi si snodano brani che mettono in conto free jazz e seducenti code strumentali, suoni acustici e calibrate incursioni elettroniche, richiami mediterranei, anticipazioni di world music, pura poesia vocalizzata da Battiato raddoppiando in post produzione la sua voce esile ma decisa. Un disco che fa da spartiacque per Battiato: a questo punto gli si aprono solo due vie: o approfondire all’estremo la ricerca sul suono e la parola, o smantellare il tutto e dedicarsi ad altro. Clic, del ’74, sembra quasi una prosecuzione della cornucopia di spunti contenuti nel disco precedente, poi arriva, per quattro anni, la ricerca pura: minimalismo, Stockhausen, lunghissime suite per pianoforte e soprano, avanguardia radicale, collage sonori. Nel mezzo trova tempo anche di lavorare a un progetto quasi fantasma con gli amici sperimentatori dal giro del progressive più avventuroso milanese, il Telaio Magnetico: recentissima la ristampa di Live ’75, con preziose registrazioni da concerti a Reggio Calabria e Gela. Chiude il cerchio, a quel punto, Franco Battiato: ha iniziato con le canzoni, tornerà a fare canzoni. E sarà il trionfo di un pop maestoso e orecchiabile al contempo, infittito di citazioni letterarie e culturali, comunicativo e costruito a strati di significato che solo chi ascolta attentamente può cogliere. È l’altro Battiato, entrato nel ’79 nell’«era del cinghiale bianco» pop, oppure lo stesso.