Se dovessimo definire la scrittura poetica di Franco Arminio, potremmo assolutamente far riferimento alla prima delle quattro parti in cui si suddivide la sua nuova raccolta, Cedi la strada agli alberi pubblicata per Chiarelettere (pp.153, euro 13). Ebbene quella parte si intitola: L’entroterra degli occhi.

Ora forse non c’è definizione più calzante per definire il luogo ove si struttura e lavora il tempo poetico di Arminio, così silenzioso, contemplativo, a volte invece pieno d’ardore; è proprio lì, in quelle retrovie degli occhi che si agita, scosso da lacerazioni durissime, è lì che trova il suo fondamento e sintesi più alta prima di riversarsi sulla pagina dove affiorano in controluce ecchimosi, gocce sanguinolente: «Non solo dobbiamo morire,/ ma prima di noi/ assistiamo alla morte degli altri,/ lenta o improvvisa, sempre ingiusta,/…/ Chiarito che contro la morte/ nulla possiamo,/ non abbiamo altro da fare/che stare attenti/ e donarci/ un attimo di bene, uno alla volta».

LA PAGINA di Franco Arminio così stilisticamente piana, chiara, di quella claritas latina, lontana quindi da qualsiasi stilema ridondante, ha nella sua scorrevolezza le stimmate del seme del piangere, quindi della vera poesia. Di quel pianto interno però, che deriva da un sentire ben preciso, individuato: la precarietà dell’esistere.

E l’autore ha già dato prova di aver intessuto i suoi versi ed anche le sue narrazioni precedenti e ricordo Terracarne o anche Cartoline dai morti, di questa costellazione di senso ben precisa. Difatti la provvisorietà, fisiologicamente esonda dal libro come una genitura che viene da lontano ma al tempo dialoga con l’altra oggettiva provvisorietà, quella dei corpi e dei paesi dell’entroterra lucano da sempre soggetti agli smottamenti ciclici degli esodi migratori del secolo passato.

Le parole tra le pagine sembrano lingue d’ombra metafisica, che accerchiano ogni cosa, paesi, persone, animali, nel memento mori e che per questo sembrano così vicine a toccare quelle verità ultime sempre così sfuggenti; testimoniano quindi di una frattura, una cesura della presenza umana da quegli spazi appenninici che però potrebbe essere ribaltata se si ripensasse radicalmente l’economia ed i rapporti non più in termini di mero profitto e produzione di massa: «Riabitare i paesi non è questione di soldi. I soldi servono a farli più brutti, a disanimarli…Per riabitare i paesi ci vuole una nuova religione, la religione dei luoghi. Ecco il punto, la questione non è economica ma teologica…». Cedi la strada agli alberi, è una grande preghiera laica che ridà dignità a ogni storia restituendola ad una fratellanza più ampia, non più solo di sangue.

IL CUORE di Arminio con tutta la sua carica di solitudine esistenziale e al tempo di gratitudine alla sacra quotidianità, si carica nel rapporto con chi legge di una nudità, di una sua asciuttezza essenziale. Un cuore che ci parla dai profili montani dei suoi paesi, di perdite demografiche e affettive che il tempo genera ma sembra questo cuore essere sempre così giovane, anche dentro le sventure, gli abissi del vivere, batte sempre ritmato, sembra caricare il paesaggio di una comunità, di quel lucore che non è propriamente luce e che assume la forma di uno sguardo, un saluto commosso, che persiste oltre la tenebra, la fine di ognuno: «Tu madre/ chiami tua madre/ e io penso alla madre/ di tua madre/ e a tutte le madri/ che non ci sono più/ fino alla prima,/ quella per cui siamo tutti orfani».