Il 2 settembre 1499 Ludovico Sforza detto il Moro fuggiva precipitosamente da Milano, dove da lì a un paio di settimane sarebbero entrate, senza sferrare un colpo, le truppe francesi di Luigi XII. Terminava così, in maniera ingloriosa, l’indipendenza del Ducato di Milano, che proprio nel ventennio del Moro aveva raggiunto il culmine della potenza politica e dello splendore culturale, suggellato dall’ingaggio a corte di due artisti di fama internazionale come Bramante e Leonardo.

Un manoscritto reso noto nel 2008 da Jill Pederson getta nuova luce sul mondo culturale milanese degli ultimi decenni del XV secolo. Isola beata, scritto in volgare da Henrico Boscano nel 1513, riporta un dialogo su un tema di stretta attualità, ovvero la redenzione dei popoli selvaggi delle Indie appena scoperte, ignare del messaggio di salvezza cristiano. Nella prefazione si ricordano le riunioni tenute in casa del Boscano a cui partecipava il meglio dell’intellighentia milanese: «Poi certi pictori et ingegneri, Leonardo da Vinci, Bramante e Caradosso. Poi Joanne Maria Giudeo e Bagino perfetti sonatori da liuti. Poi certi musici messer Janes da Liegi, e Pietro da Olli, e Gasparo, e Giovan Ciecho, e molti altri philosophi et musici che io non mi ricordo di soi nomi».

Nell’elenco, curiosamente, manca il più riconosciuto dei musicisti milanesi, Franchino Gaffurio, nominato a sorpresa maestro di cappella del Duomo nel 1484 dopo una lunga gavetta musicale in Italia, da Mantova a Verona, Genova, Napoli e di nuovo nella città natale Lodi. Gaffurio svettava per abilità pratica e scienza, documentata dai suoi trattati più importanti, il Theorica musicae del 1492 e soprattutto il Practica musice, capolavoro di editoria figurata pubblicato nel 1496 con dedica a Ludovico il Moro. Il frontespizio mostra Apollo in trono che afferra con la sinistra un liuto e con la destra si rivolge alle muse Eufrosine, Talia e Aglaia, raffigurate nude.

Il mondo milanese del tardo Quattrocento non trovava stridente che il custode della secolare tradizione musicale cristiana mettesse la sua arte sotto la protezione di una divinità pagana. Al contrario, il lavoro svolto da Gaffurio nel Duomo era universalmente lodato, tanto da rimanere in carica fino alla fine dei suoi giorni nel 1522, sotto arcivescovi d’indole così diversa come il cardinale Giovanni Arcimboldi e Ippolito d’Este, grande mecenate e dedicatorio dell’Orlando furioso. Summa dell’esperienza pratica del Gaffurio sono i quattro codici manoscritti, detti Libroni per la loro dimensione, preparati sotto la sua supervisione per l’uso liturgico della cappella del Duomo.
L’ultimo dei Libroni, probabilmente il più bello per la scrittura e le miniature, è andato purtroppo quasi interamente distrutto nell’incendio del 1906 ai padiglioni dell’Esposizione universale.

I codici raccolgono musiche di Gaffurio e di altri maestri della grande polifonia come Gaspar van Weerbeke, Loyset Compère, Heinrich Isaac, Alexander Agricola, Josquin des Prez. La storia dei volumi, e del mondo che ruota attorno a una scienza musicale così sottile e articolata, è raccontata da una raccolta di saggi a cura di Daniele V. Filippi e Agnese Pavanello – Codici per cantare I Libroni del Duomo nella Milano sforzesca (LIM, pp. 421 € 40,00), che offrono il quadro più completo (al momento) su un bene culturale così complesso, tenuto in vita grazie a una prassi musicale sempre più consapevole della ricerca storica.