«Porto in salvo dal freddo le parole,/ curo l’ombra dell’erba, la coltivo/ alla luce notturna delle aiuole,/ custodisco la casa dove vivo,/ dico piano il tuo nome, lo conservo/ per l’inverno che viene, come un lume». Questa una poesia di Francesco Scarabicchi edita in il Prato bianco, per Einaudi nel 2017.

VENUTO A MANCARE la scorsa notte ad Ancona, è stato poeta tra i più limpidi e alti nel ristretto ventaglio della contemporaneità italiana, per profondità di dettato e capacità linguistica, capace come pochi di far tenere sullo stesso filo della strofa, suono e contenuto. Erede di una tradizione tra le più fiorenti e importanti, quella marchigiana, dove possiamo collocare oltre il suo maestro Franco Scataglini, anche altri poeti e solo per citare quelli del pieno novecento, ricordiamo Luigi Di Ruscio e Umberto Piersanti. Scarabicchi non è stato altro nella sua vita che il fedele continuatore, per sensibilità di lingua, dell’immenso idillio leopardiano, certo innestandolo delle fugaci antinomie della nostra contemporaneità, dove il dettato tecnologico così pervasivo, batte i nuovi ritmi del cuore ma certo egli ne seppe ammansire il nuovo tambureggiare, dargli il giusto peso nella scala del sentire e dello scrivere. L’iper-digitalizzazione, rappresentò per il poeta un battito fioco, nella fibrillazione del verso, difatti essa si trovava sempre sotto qualcos’altro, non era mai da auscultare direttamente ma semmai tenere lì, a debita distanza, per mantenere intatto quel precario equilibrio senza il quale non avrebbe mai potuto scrivere poesia. Ecco il suo distacco sì ma mai altero, dalle schizofrenie digitali, è servito meglio a farci intendere qualcosa in più anche della nuova era. Sapeva, artigiano della scrittura, che la partita poetica si gioca sempre su altri piani a partire da quello psicologico, non dentro quelli transeunti di ogni contemporaneità.

E INFATTI NEL SUO POEMA lungo una vita che va, solo per citare alcune opere, da La porta murata del 1982, a L’esperienza della neve del 2003 per Donzelli, sino a Il prato bianco, ha mantenuto viva quella qualità tra le più rilevanti, per poter davvero misurarsi con l’alto piano sfuggente della poesia: la capacità di osservare. Ecco proprio l’esercizio allo sguardo, che quel territorio abitua tanti dei suoi valenti scrittori, fatto di declivi lievi e quasi mistici che punteggiano l’entroterra, nell’abbraccio ideale con la terrazza luccicante e azzurrissima del mare a est. Scarabicchi sapeva riportare nel rigo le incrinature della terra, le sue lunghe mareggiate stagionali; l’attenzione e la tensione del suo occhio era sempre sulla piccola cosa, perché solo per quella valeva la pena esser al mondo; mi confidò una volta: «solo chi è attento al flebile battito, può dir qualcosa dell’uomo».

Ma la sua scrittura è stata anche e non per ultimo, un idillio alla relazione, senza la quale l’umano è miseria, all’amicizia; e non può tacersi quella di una vita, col critico letterario Massimo Raffaelli, anch’egli marchigiano, sua la nota in quel lucente scritto che il poeta dedicò al pittore prediletto, Lorenzo Lotto, dal titolo Con ogni mio saper e diligentia (2013). Dunque l’alto tempo dell’amicizia, ha ticchettato come un pendolo dentro ogni sua scrittura, anche laddove il sipario naturale così prorompente, sembrava magari prendere il sopravvento su tutto, ecco di lato invece una mano, una testa a sventolare come una bandierina, dentro quel paesaggio e farne parte per sempre. Ecco questo allenamento alla visione, dava al poeta la capacità di antivedere dove le relazioni, i rapporti, non solo si trovavano ma sarebbero andati. E partendo dall’hic et nunc, era capace di reimmeterli sempre nel ciclo più ampio del divenire, dando di essi una visione sempre nuova. E col tempo la sua voce mi è parsa farsi, di libro in libro, più giovane perché sempre più spoglia di tutto, di ogni gravame, orpello mondano, una voce leggera, fatta d’aria .

FU CUSTODE di molte cose, Francesco, della bellezza sicuramente, che la sua scrittura rincorreva alacremente nelle forme ma anche della sofferenza, dello smarrimento, che il suo corpo pativa da tempo in modo irreversibile. La sua forza però era avere questa consapevolezza così nuda, del patire che lo traversava, che anziché introiettarlo nel sé lo proiettava sempre nel fuori, nel reale, nell’attenzione da dare alle cose, alla loro cura. Lo ricordo alcuni anni fa sotto i portici di Bologna in affanno in una calda primavera, il treno giunto in ritardo, per una lettura dialogo alla Zanichelli; era solo una presentazione, eppure ecco la cura per le cose, di cui dicevo, ecco il rispetto che ne derivava e che informava pienamente quest’uomo. Poche parole ci dicemmo durante il tragitto, aveva premura di arrivare. Sedemmo innanzi alla platea, la moglie ed il piccolo figlio in prima fila, si scusò per il ritardo, alzò lo sguardo, già negli occhi silenziosi prima che si aprisse il microfono, camminavano le sue terre soavi e maestose, già parlavano.