Sin dal suo esordio con Cronaca di un servo felice, uscito nel 1999 dopo avere collezionato alcuni rifiuti, Francesco Permunian è stato in qualche modo uno scrittore sadiano: tra le sue ossessioni autoriali se ne contano almeno due che lo avvicinano, per gusti e disgusti, al Divino Marchese: l’anticlericalismo militante, quasi teppistico, e le cosiddette perversioni sessuali descritte in uno stile antipsicologico, corale, bestializzante, da enciclopedia della fauna umana.

Non è un caso quindi che il suo nuovo romanzo, Elogio dell’aberrazione (Ponte alle Grazie, pp. 208, € 16,80), sia la riscrittura molto libera delle 120 giornate di Sodoma e contemporaneamente ne sia anche la riscrittura della riscrittura: rifacendo il pasoliniano Salò, Permunian lo ha ambientato come sempre nell’amata e schernita provincia lombardoveneta di cui è diventato, insieme a Aldo Busi, il bernhardiano tartassatore ufficiale.

Qui racconta la storia d’amore davvero singolare tra il protagonista Tito Maria Imperiale, nano non del tutto benefico nonché cronista semifallito di un gazzettino locale, e Ofelia Del Pirón, aristocratica scaduta, sorta di Albertine del Garda fuggita con un impresario escrementizio, proprietario di una ditta di spurghi condominiali.
I due si conoscono alle audizioni di un improbabile seguito di Salò e quell’incontro accende la loro lussuria polimorfa tanto che insieme si scoprono avanguardisti del sesso. Intorno a loro orbitano figure grottesche, ovvero comicamente tragiche e liriche insieme: monache smonacate, cognati che cucinano preti, mistiche urinarie, petomanti.

Se la scatologia in Sade era critica dei paradossi morali dell’illuminismo e in Pasolini era accusa fuori tempo massimo ai fascisti, in Permunian sembra tramutarsi in discorso sull’egemonia culturale del «trash» così come lo teorizzava Tommaso Labranca: l’emulazione fallita, vale a dire il soccombente che non sa di esserlo e imita Glenn Gould rendendosi ridicolo.

In un mondo in cui è impossibile distinguere tra genio e regolatezza, tra scrittore e analfabeta creativo, il novantanove per cento di quello che si produce in arte è scatologia, come Permunian già sottolineava nel precedente Giorni di collera e di annientamento, dove il bersaglio era l’editoria indiscriminata e l’eccezionalità di massa.

Se non esistono più gerarchie estetiche condivise, ogni verticalità è impossibile, sia all’insù, come in Dante, che all’ingiù, come in Sade. Non resta dunque a Permunian che l’orizzontalità della chiacchiera paesana, l’enumerazione a somma zero, il «sillabario dell’amor crudele».

In fondo, come scriveva Zanzotto dell’ultimo Montale, quando si passa dall’escatologia alla scatologia, anzi quando la scatologia è la nuova escatologia, per tenere viva la letteratura non resta che la poesia dell’impoetico o, nel caso di Permunian, allievo di Zanzotto, la letteratura del pettegolezzo, dalla filosofia del boudoir alla filosofia da bidè à la Cioran.