«L’anno termina e ricomincia illuminato da una lampada tempestata da vetri multicolore dentro una nicchia ricavata tra le antiche costruzioni di Petra scavata e modellata nelle pareti da evidenti e ritmici colpi di scalpello», scrive Francesco Impellizzeri (Trapani 1958, vive e lavora a Roma) nel taccuino dalla copertina rossa e nera che ha con sé durante il viaggio in Giordania e Siria. La pagina accanto è riservata al disegno acquerellato che traduce le parole in visione. Suggestioni d’altri tempi, si direbbe. Come non pensare agli schizzi acquerellati tra la scrittura leggermente inclinata di Eugène Delacroix al seguito del conte Charles Edgar de Mornay nella spedizione in Marocco del 1832?

Un’esperienza raccontata in sette taccuini e nel grande Album del Marocco. Per non parlare dei Carnets de Voyage d’Orient di Charles-Édouard Jeanneret-Gris (più tardi noto come Le Corbusier) in viaggio, nel 1910, con l’amico Auguste Klipstein da Vienna a Roma passando per Bucarest, Costantinopoli, Monte Athos, Atene e Napoli o le pagine coloratissime di Paul Klee, turista in Tunisia nel 1914 con August Macke e Louis Moilliet.

Storie già conosciute che però nello strano momento dell’«era pandemica» che stiamo vivendo – costretti ad una forzata stanzialità – assumono una valenza che non è solo documentaria. Affiora la nostalgia del tempo che sembra lontanissimo dei viaggi lenti, della conoscenza attraverso l’esperienza diretta di quegli odori, colori, sapori che la realtà virtuale non potrà mai restituire.

Un tè
Eccoci quindi a prendere un tè in un pomeriggio qualunque che diventa speciale attraverso il ricordo dell’artista visivo e performer Francesco Impellizzeri che apre uno dei suoi taccuini di viaggio. Un oggetto che ha sempre avuto con sé insieme all’album per gli schizzi, la colla, gli acquarelli Lefranc Bourgeois e le matite tascabili. Il viaggio di due settimane in Giordania e Siria, a cavallo tra la fine del 1989 e l’inizio del ‘90, è stato un po’ diverso da quelli che lo hanno preceduto (Marocco, Algeria) e dagli altri che sarebbero seguiti (Egitto), accomunato però da un’analoga ricerca delle radici di una «koiné» culturale mediterranea. «La luce di Trapani è quella del Nordafrica», spiega l’artista, «come pure i suoni. Ricordo che a volte ci si sintonizzava sulla radio tunisina dove si ascoltavano le musiche arabe. Sono andato alla ricerca di un patrimonio che mi apparteneva e di cui volevo riappropriarmi». Sulle pagine color avorio del taccuino sono appuntate le impressioni, i numeri in arabo, gli orari d’arrivo e partenza, i nomi degli alberghi, i luoghi visitati accanto ai foglietti incollati: il ticket di un museo, l’adesivo del formaggino Regal Picon…

Frammenti di un tempo presente in bilico tra passato e futuro che ci riportano al senso dell’avventura lì dove l’imprevisto diventa elemento fondante del viaggio. «Partivi con lo spirito di dover raccogliere tutto, dall’immagine attraverso l’oblò del finestrino al pacchetto di sigarette trovato per terra con una grafia e un colore che ti colpiva e che finiva incollato nel quadernino. Oppure ai disegni, come in questo caso, di un lampadario dipinto velocemente con l’acquarello».

I tempi erano dilatati nell’attesa di un autobus, di un treno, di un taxi, il momento perfetto per fissare l’impressione. Il risultato è una stratificazione che coincide con il mondo interiore dell’artista: la parte giocosa e quella più profonda e poetica. «Dall’immagine pop al frammento dei tessuti ritrovati nelle tombe di Palmira incorniciati ed esposti nel museo di Damasco. Tutto questo fa parte del mio occhio da mosca che guarda e cattura».

Da Damasco a Palmira
Ma se gli altri viaggi erano stati solitari, nel viaggio in Giordania/Siria il percorso di Francesco Impellizzeri si è intrecciato con quello della carissima amica Francesca Maria Corrao e di Valentino Bobbio che sarebbe presto diventato suo marito. «Loro partirono qualche giorno prima. Fu un viaggio molto bello e articolato». La coppia aveva preso in affitto un’automobile e con loro Francesco attraversa la Giordania e il confine con la Siria, recandosi da Damasco a Palmira. «Il paesaggio rarefatto del deserto, tagliato da una strada dritta ed infinita, si articola al nostro passaggio» – scrive senza esitazione – «Montagne alla destra e sterminata pianura alla sinistra. Cespugli ritmano di scuro, come note su un pentagramma, la sabbia pietrosa e ai bordi dell’asfalto un tentativo d’installazione di un percorso alberato. Le gracili piante, alte non più di 30 centimetri, corrono allineate da Damasco verso Palmira come voler legare la vita alla vita tra il nulla. Ma questo spazio in apparenza così poco vissuto mostra segni di presenza umana. Qualche accampamento beduino è sparso lungo il cammino e piccoli greggi si notano animare l’orizzonte seguiti da figure nere dondolanti e spirituali. La pioggia lascia spazio tra le nuvole al cielo. I rari segnali movimentano e ritardano il raggiungimento della nostra meta, ma mentre la luce sembra aver raggiunto un’intensità maggiore ecco che le prime pietre antiche si fanno avanti. Resti di enigmatiche torri di svariate misure salutano e avvertono del nostro arrivo alla città della mitica Zenobia».

La bellezza delle rovine che si stagliano tra il cielo e il deserto riempie il cuore: «L’intero spazio è avvolto da un silenzio pulito e solitario. Soli tra le rovine, padroni della colossale costruzione, gioiamo di questa ricchezza e di tanta bellezza». Non è meno affascinante la parete del ristorante dell’Hotel Zenobia, l’unico nei pressi del sito archeologico, documentato anche nelle foto dei viaggiatori degli anni ’20. «Le piccole pareti smaltate di un begiolino malaticcio su cui sono appesi, fissati da nastro adesivo per pacchi, manifesti pubblicitari di prodotti culinari francesi. Il soffitto quadrettato dal medesimo nastro che regge miracolosamente fogli di carta arabescata. Il verde predomina su tutto è poveramente distribuito per donare a quella misera stanza, che si isola dal resto del ristorante, un’eleganza sognata. La tovaglia, la tenda, le sedie e tutto il resto disposto come per un banchetto ricorda come anch’io facevo da bambino cercando di ricostruire i pranzi festosi delle riunioni familiari con i miei piccoli cugini riciclando oggetti di casa ormai in disuso, ma anche ben accoppiati che davano alla giovane mensa l’idea di una realtà come in questo caso a Palmira».

Frammenti
Impellizzeri ha con sé anche la macchina fotografica con cui scatta diapositive a colori. «Il paesaggio non mi interessava affatto, per questo c’erano le cartoline. Fotografavo le porte, i manifesti, i cartelli stradali, anche l’angolo di una strada, il frammento di un muro. La mia fotografia non ha velleità artistica è sempre il catturare un qualcosa». Il taccuino si chiude con le pagine di Amman, ultima tappa prima di riprendere l’aereo per Roma. C’è un disegno del teatro romano e la trascrizione di un momento intimo rivolto a suo padre, scomparso qualche anno prima. «È solo una canzone canticchiata a mezza voce, ma le lacrime dapprima appena timide scendono copiosamente sul viso mentre salgo in cima all’alta cittadella di Amman. I pochi ruderi appaiono mentre la voce strozzata in gola aumenta di volume, come per afferrare le note perdute nel pianto. La città nel suo bianco aspetto sinuoso appare e questa ascensione, iniziata con musicale spensieratezza, culmina trascritta, seduto su un tronco di colonna spezzata, in una dedica a mio padre».